La Brexit ci sarà, trovate un'intesa

La Brexit ci sarà, trovate un'intesa

di Paolo Micheletto

No, gli inglesi non sono impazziti all’improvviso. Non hanno perso la forza d’animo che li ha portati ad anticipare diverse rivoluzioni negli ultimi secoli e a governare su un quinto del globo fino a poco più di cento anni fa. Non hanno eletto a inno nazionale «Should I stay or Should I go» (Devo restare o devo andare), uno dei grandi successi dei Clash, icona del punk rock inglese che andava per la maggiore negli anni Settanta. D’accordo: danno questa impressione. Del resto, anche il più incallito anglofono può nutrire qualche sospetto di fronte a un popolo che prima bandisce un referendum assurdo, poi vota per isolarsi dal resto dell’Europa e quindi gestisce le conseguenze di quel voto con un pasticcio dopo l’altro. Perché questo sembra la gestione della Brexit: un pasticcio. Ma i sudditi di Sua Maestà - in realtà - sono sempre loro, piuttosto coerenti nella superiorità percepita e praticata con distacco rispetto al continente e al resto del mondo.

Certo, la gestione della Brexit è davvero sfuggita di mano, e in questo i britannici sono cambiati, in peggio: la classe politica non riesce più a trattare con il resto dell’Europa in modo da ottenere un vantaggio reciproco e soprattutto in modo da dare l’idea ai cittadini che il Regno Unito e l’Europa sono sì due mondi distinti, che viaggiano però in direzioni non parallele, ma almeno non in contraddizione tra loro.
Perché la realtà è chiara, anche in questo baillame istituzionale che ha portato all’eliminazione di due primi ministri come David Cameron e Theresa May e all’umiliazione di un terzo premier, quel Boris Johnson (il biondo BoJo) che in maniera fin troppo spavalda ha promesso che il Regno Unito si sarebbe allontanato dall’Europa entro il 31 ottobre, salvo poi doversi rimangiare la promessa dopo l’ennesimo voto contrario della Camera dei Comuni.

La realtà è chiara, dicevamo. E cioè che gli elettori inglesi sono a favore della Brexit: non sopportano di condividere la politica estera ed economica con Bruxelles, perché l’alleato sono abituati a sceglierlo da soli - come dimostra lo storico asse privilegiato con gli Stati Uniti - oppure di non averlo proprio, come è stato con l’espansione coloniale. Non traggano in inganno gli schiaffi continui che Westminster rifila regolarmente al premier di turno che torna da Bruxelles con un piano per una Brexit condivisa tra Londra e l’Unione europea: i voti contrari non sono dovuti al fatto che i deputati non vogliono la rottura, ma sono arrivati perché le intese firmate da Theresa May e da Boris Johnson sono state ritenute troppo penalizzanti e gravose per il Regno Unito. Insomma, la Camera dei Comuni la mette giù dura nel momento del divorzio, che non vuole mettere in discussione. Non un bel modo per mettere la parola fine a un matrimonio mai del tutto consumato, ma forse tutto ciò poteva essere previsto.

L’Inghilterra vuole quindi la Brexit. E la voterebbe di nuovo se venisse proposto un secondo referendum. Del resto lo Stato inglese è un fattore identitario che si perpetua nei secoli, e chi ne è fuori è fuori, per sempre e comunque. Una situazione che fa soffrire chi ama Londra e che negli ultimi 20-25 anni, dai tempi della Cool Britannia di Tony Blair, l’ha vista diventare la capitale dell’accoglienza, della finanza, della ricerca scientifica, dell’apertura delle università agli studenti stranieri e di molto altro. Il nuovo Millennio ha portato un’espansione senza limiti lungo il Tamigi, con una bulimia immobiliare e finanziaria che sembra non arrestarsi mai. Il benessere è diffuso a Londra, da Chelsea a Marylebone ma anche dall’area espansa da Wimbledon fino a Stratford dove le Olimpiadi del 2012 hanno lasciato in eredità migliaia di alloggi pubblici, uno dei più grandi centri commerciali d’Europa, una fermata internazionale della mitica Tube londinese.

Difficile pensare che Londra sia in recessione, se si passeggia su Bond Street o si cerca un tavolo da Aqua Shard, il ristorante al 32° piano della torre di vetro ideata da Renzo Piano. Oppure se si ammira assieme a turisti di ogni latitudine La Battaglia di San Romano di Paolo Uccello che la National Gallery, come tutti gli altri musei, continua ad offrire in forma gratuita. E cos’è, se non la dimostrazione di una rinnovata e illimitata capacità di spesa di fondi pubblici, la prossima apertura di una nuova linea, dedicata alla regina Elisabetta, della più efficiente metropolitana d’Europa? A Londra la sterlina gira eccome, anche grazie ai petrolieri mediorientali e agli oligarchi russi che - chissà perché - hanno preferito le ville di Belgravia e Kensington ai loro paesi d’origine.

Ma allora perché gli inglesi vogliono uscire dall’Europa se Londra ha viaggiato a gonfie vele per anni e se gli immigrati hanno portato indubbi vantaggi, andando ad occupare situazioni professionali di basso livello che altrimenti sarebbero rimaste sguarnite? Anche qui la risposta è semplice. Londra non è l’Inghilterra e il resto dell’Inghilterra non è Londra. I rubli, i dollari e le sterline dell’alta finanza non sono mai usciti dalla capitale, e a Sunderland o a Newcastle non li hanno mai visti. Già a pochi chilometri a nord di Londra e nei sobborghi popolari della Greater London la rabbia e la preoccupazione del futuro dominano le menti e i cuori della classe media. E si sa che, di fronte al lavoro che non si trova e alla difficoltà di pagare l’affitto, l’”altro” e il “diverso” diventano i peggiori nemici, anche se non sono ben definiti: per le classi in difficoltà la rabbia spazia dal burocrate di Bruxelles e Strasburgo al mitico builder polacco, il manovale che i populisti britannici hanno preso ad esempio come lavoratore straniero che - abbassando i prezzi delle prestazioni e accettando ben poche tutele - ha fatto sfregio del mercato interno.

Inutile negare che l’inglese più tradizionale - condito da un certo conservatorismo e spesso razzista - sogna il ripetersi dell’Impero britannico e non vede l’ora di tornare ad essere una “vera” isola, senza troppi legami con l’Europa.

Mettete la nostalgia per i bei tempi andati, mescolatela con la crisi economica che ha quasi cancellato i lavori non specializzati ma in grado di garantire stipendi accettabili: otterrete la Brexit, se aggiungete questi ingredienti a un tradizionale separatismo dall’Europa. E dalla Brexit non si può sfuggire: la soluzione migliore è di raggiungere un vero accordo condiviso, e di lavorarci fino al raggiungimento dell’obiettivo. Poi la parola definitiva non potrà che arrivare da un nuovo primo ministro e da un rinnovato Parlamento: di sicuro, però, dalla separazione non si tornerà indietro.

Non ci sarà di certo la Halloween Brexit che prevedeva un accordo entro il 31 ottobre, ma anche a Bruxelles conviene concedere una proroga di almeno tre mesi, sperando che le trattative delle diplomazie riducano i danni, che si annunciano inesorabili per tutte le parti in gioco. Di sicuro i colpi di scena non mancheranno, se avrà ragione Nigel Farage, il leader populista anti Europa, che prevede una proroga di sei mesi per trovare un nuovo Deal e le elezioni anticipate nel Regno Unito entro tre mesi, che potrebbero dare a Johnson un potere più forte nella chiusura dell’accordo.

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