La fine del ghetto di Varsavia

La fine del ghetto di Varsavia

di Renzo Fracalossi

Il testo recita: «16 maggio 1943. Il ghetto di Varsavia ha cessato di esistere. Brigadeführer SS Jürgen Stroop».
È questo il telegramma che giunge a Berlino e che consegna alla storia la fine della resistenza ebraica nel ghetto della capitale polacca; una resistenza del tutto inattesa dai tedeschi e scoppiata già il 19 aprile, impegnando ingenti forze per reprimerla. Himmler è soddisfatto dell’esito dell’«Grossaktion Warschau».

Talmente soddisfatto che ordina di celebrarla distruggendo la grande Sinagoga di via Tlomacki, a simboleggiare il destino che attende i rivoltosi e, più in generale, tutti gli ebrei d’Europa. Sotto quelle macerie viene soffocata così la prima insurrezione armata di civili nei Paesi occupati da Hitler ed il più rilevante atto di resistenza ebraica al nazismo, guidato dai giovani leader della Z.O.B. (Zydowska Organizacja Bojowa – Organizzazione Combattente Ebraica) Mordechaj Anielewicz, Marek Edelman e Yitzhak Zuckerman.
Ma cosa sono i ghetti? Il termine, come noto, nasce a Venezia nel XVI secolo per indicare quell’area urbana, nei pressi della fonderia, dove risiede la comunità ebraica. Nei secoli però quel nome si adatta a tutti i rioni delle città europee destinati agli ebrei ed ai loro commerci, mentre per i nazisti diventa il luogo idoneo a segregare e controllare le popolazioni ebraiche rastrellate in un determinato territorio, in attesa di definirne i destini. La ghettizzazione così può durare pochi giorni, qualche settimana o addirittura mesi ed anni, in relazione a quale delle tre categorie, stabilite dalle disposizioni naziste, appartiene il singolo ghetto: chiuso, aperto o destinato alla distruzione.

Sono migliaia i ghetti in Polonia ed in Ucraina, ma fra essi e per dimensioni, spicca quello di Varsavia dove oltre 500.000 persone vengono stipate in 3,4 chilometri quadrati, con un tasso di mortalità per fame e malattie pari a circa 2.000 individui al mese. Grandi ghetti poi sono istituiti a Cracovia, a Lodz, a Bialystock, come a L’vov, Kowno, Czestokowa, Vilna e Minsk. Ovunque gli abitanti devono indossare sempre targhette di identificazione o bracciali e sono destinati ai lavori forzati, mentre le loro precarie esistenze sono affidate all’amministrazione dello “Jüdenrat”, il Consiglio ebraico, nominato dai nazisti per le incombenze organizzative della vita comune ed affiancato dalla Polizia ebraica che ha il compito di far osservare scrupolosamente gli ordini dei tedeschi. È un dramma nel dramma, anche perché i vari Consigli ebraici sono chiamati a redigere le liste delle deportazioni nei campi di concentramento e di sterminio, stabilendo così chi deve vivere e chi deve morire.

Nei ghetti però gli ebrei resistono. Pianificano attività illegali, introducendo cibo, armi e medicinali; danno impulso continuo all’istruzione e dalla formazione religiosa di bambini e ragazzi, mantenendo così vive millenarie tradizioni e, dove possibile, preparano insurrezioni armate, come appunto quella di Varsavia, ma anche di Vilna, Bialystock, Czestokowa, Tarnow ed in molti altri ghetti minori, al pari di alcuni campi di concentramento e di sterminio come Sobibor e Treblinka.

Si tratta di un fenomeno vasta e poco indagato che però confuta l’errata opinione di chi vorrebbe descrivere gli ebrei solo come «un gregge di pecore rassegnate alla morte».
Seppur con modalità varie e diverse, in tutta l’Europa dominata dalla svastica gli ebrei provano a resistere ed opporsi alle deportazioni e anche in Italia ciò avviene grazie alla Delasem (Delegazione per l’Assistenza degli Emigrati) che opera sia prima come durante l’occupazione tedesca ed anche attraverso l’adesione di oltre mille ebrei italiani - e fra loro Vittorio Foa; Primo Levi, Umberto Terracini, Leo Valiani ed Elio Toaff - ai movimenti resistenziali operanti sotto l’egida del Clnai.

Però è a Varsavia quel 16 maggio, che si consuma la tragedia epica della resistenza ebraica con oltre 13.000 uccisi in combattimento o con fucilazioni dopo la resa; 6.000 deportati a  Treblinka per la “soluzione finale” e gli altri 40.000 circa dispersi e sterminati nell’universo concentrazionario: da Majdanek a Trawniki.

Solo poche centinaia di quei rivoltosi sopravvivono alla Shoah, salvando in tal modo la memoria di uno straordinario eroismo e di una irriducibile volontà di vivere, come fu quella della “Varshever geto oyfshtand”, della “rivolta del ghetto di Varsavia” che, in quest’anniversario, proviamo anche noi a ricordare.

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