Il centrosinistra così si suicida

Il centrosinistra così si suicida

di Michele Andreaus

La politica trentina è stata caratterizzata da un lungo periodo di stabilità. Di fatto, a partire dal 1988, si è insediata una classe dirigente, che si è fondamentalmente basata su poche persone, con un controllo abbastanza forte sul territorio e uno schema politico che è arrivato sino ai giorni nostri. Una parte dell’ex Democrazia Cristiana, seppure a geometrie e denominazioni variabili (semplificando, le varie liste elettorali di Dellai), il Partito Democratico e il Partito Autonomista Trentino Tirolese, hanno formato il cosiddetto centro sinistra autonomista (il csa). In questi anni sono state fatte molte cose buone, il Trentino è certamente diverso ed è cresciuto. Poi però, ad un certo punto, qualche cosa si è rotto.

I primi scricchiolii forti si sono avvertiti con le politiche del 2013, quando la coalizione di governo vinse bene, però alla Camera si presentò divisa, con Dellai che fece una partita in solitaria nella lista Monti.

Con un esito elettorale sì positivo, ma oltremodo deludente, considerato che si presentava come presidente della provincia uscente, e dopo aver governato Trento e il Trentino per 25 anni.
Forse fu un segnale non colto di raffreddamento dell’elettore, che ha sì votato l’ex presidente, ma con poca o pochissima convinzione, quasi per inerzia.

Il secondo minaccioso scricchiolio è stato con le primarie del luglio 2013, quando il predestinato cadde da cavallo, e salì in sella l’attuale presidente Rossi, che ha guidato una Giunta con all’interno varie tensioni e spaccature in parte dovute proprio all’esito di quelle primarie. È stata una Giunta che ha gestito momenti non facili, un calo delle risorse, una crescente critica da parte degli elettori, i quali hanno percepito una gestione della politica trentina spesso basata sul freno a mano. Spesso questa legislatura è stata caratterizzata dalla proposta forte, poi ritirata, dallo scatto in avanti e poi dal compromesso, dall’annuncio al quale segue il nulla, situazioni tipiche di una politica debole, che deve innanzitutto gestire al proprio interno il compromesso, non avendo la forza di portare avanti le proprie idee.

Poi, di scricchiolio in scricchiolio, si è arrivati al 4 marzo, quando la diga si è rotta e la coalizione di governo ne è uscita con le ossa rotte, talmente rotte che ad oggi fa ancora fatica a capire esattamente cosa sia successo, derubricando il tutto ufficialmente a errore nella comunicazione. Il guaio è che il centrosinistra autonomista si è realmente convinto che sia stata proprio questa la ragione del disastro. Nessuno ha pensato che aver basato la campagna elettorale non su idee e progetti, ma sui nomi nelle caselle e sul messaggio «siamo stati tanto bravi, quindi rivotateci» abbia probabilmente definitivamente rotto quel rapporto fiduciario totale che ne ha retto il consenso per parecchi lustri.

Ora le elezioni provinciali si avvicinano e, leggendo i giornali, mi pare che si tenda a replicare il meccanismo delle ultime elezioni politiche. Sino ad ora il tema del giorno è stato la scelta del candidato presidente. Non il progetto politico, non la tattica ma, come sempre, il «prima partiamo dalle persone, poi qualcosa ci inventiamo, tanto siamo bravi». Rossi, giustamente, ambisce ad una riconferma, il Patt più per bandiera che per convinzione, lo sostiene, l’Upt appare molto più freddo, il Pd ondeggia, va di qua e di là, è terrorizzato dall’idea di un candidato presidente diverso da Rossi e alla fine sceglie la continuità.

Leggendo i giornali, mi sono fatto però l’idea che non sia una scelta convinta e basata sul fatto che Rossi sia effettivamente la persona che meglio può rappresentare il centrosinistra autonomista, ma che sia una scelta dovuta essenzialmente a due motivi, tutti interni al Pd.
Innanzitutto il terrore di dover scegliere: le coltellate delle precedenti primarie, hanno lasciato il segno ed i miasmi interni avrebbero da un lato eliminato in lotte fratricide ogni candidato (non a caso il segretario spingeva per l’estrazione del coniglio dal cilindro, il nome fuori dai giochi). Inoltre queste spaccature sarebbero state evidenti anche all’esterno del partito, e quindi meglio tenere i gerani alla finestra, fare vedere che la casetta è bella in ordine, con una facciata di compattezza e nascondere che gli interni della casa sono distrutti da anni di litigi.

Il secondo motivo è che Rossi farebbe un solo altro mandato, liberando il posto tra cinque anni e allora sì che il Pd potrà esprimere il presidente. Mah, non mi sembra esattamente il percorso migliore per convincere l’elettore del centro sinistra a ritornare all’ovile. Mi sembra un atteggiamento oggettivamente offensivo per il povero Rossi, che si trova candidato presidente perché figlio di compromessi bassissimi. In più la coalizione, se esisterà ancora, dovrà poi convincere l’elettore in fuga a rientrare in una casa che appare a dir poco sgarrupata e pericolante.

Sul fronte delle opposizioni, abbiamo una politica che gioca a tirare fuori il peggio dalla società e ogni giorno scava e sposta un passettino più in là il limite del peggio, e non può fare altrimenti, perché si alimenta del peggio, forse nemmeno rendendosi conto che alla fine resteranno macerie, non dell’Italia, ma della società, che sta perdendo quegli elementi che la rendono comunità, diversa da un branco di persone prive di valori. Di contorno, il perenne annuncio di varie liste civiche, movimenti civici, sindaci che parlano con tutto l’arco costituzionale presente e futuro, promettono alleanze con tutti e prontamente le stracciano il giorno dopo. Sindaci e liste civiche che fanno motivo di vanto il non avere una proposta politica, ma solo una valida azione amministrativa e quindi non dichiarano nemmeno da che parte stanno. Il non avere un progetto politico consente infatti di collocarsi ovunque e quindi prima si cerca di capire quale carro vincerà, poi si sale al volo e magari si cerca di convincere tutti di essere stati determinanti nella vittoria e di capitalizzarla al meglio. Inutile parlare di strategia, eccessivo parlare di tattica, forse si tratta di mero opportunismo…

Quello che io mi domando, è come sia possibile immaginare di presentarsi alle elezioni senza un disegno politico chiaro, senza dare un’idea di come si vorrebbe il Trentino tra dieci anni e cosa fare per raggiungere il risultato. Quali aspettative dà una coalizione che in cinque anni non è riuscita a risolvere quelle tensioni interne, che possono anche essere normali, ma che devono essere gestite e risolte, non sempre rinviate? Sono tensioni che di fatto impediscono ad oggi un progetto politico, che non esiste e se esiste viene tenuto nascosto bene, forse per puntare sull’effetto sorpresa. Si passa così alla proposta da campagna elettorale: la nuova strada, via il numero chiuso all’università, l’accorpamento di qualche ufficio e la creazione di altri.

A volte mi chiedo cosa stia succedendo, mi chiedo se dal palazzo non si riesca non dico a capire, ma anche solo a vedere quello che sta accadendo. Mi dicono di sondaggi riservatissimi che anticipano il disastro totale. Penso anche però che non sia mai troppo tardi per una proposta politica un po’ di prospettiva, in grado di coinvolgere nel vero senso del termine le persone, in grado di richiamare tutti, a partire dai giovani, a fare politica. Il fare politica non è e non potrà mai essere il post volgare e becero su Facebook, ma sarà sempre ragionamento e convinzione delle proprie idee, ma anche apertura al confronto con gli altri. Certo, se le proprie idee sono il farsi riconfermare in consiglio provinciale o in giunta, allora sarà molto, molto difficile convincere l’elettore, me per primo, a staccare il biglietto per consentire loro di fare un altro giro di giostra.

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