Le case chiuse di Trento e Rovereto

Le case chiuse di Trento e Rovereto

di Maurizio Panizza

In Italia, quasi sessant’anni fa, esattamente il 20 settembre 1958, le case del sesso libero chiudevano definitivamente le porte. Nessuna classe sociale rimaneva esclusa dal novero degli «ospiti» di quelle case particolari.

La media borghesia era stata da sempre quella più rappresentata attraverso professionisti, imprenditori, impiegati (e pure qualche prete), ma dopo la metà degli anni Cinquanta anche il popolo degli operai si affacciò sempre più numeroso alle porte dei casini: il boom economico, che di lì a poco avrebbe trasformato profondamente la società italiana, stava dando anche in questo campo i primi timidi segnali dai quali neppure il Trentino sarebbe rimasto escluso.

Così, con il passare del tempo e con l’apertura degli orizzonti culturali - per così dire - il sabato e la domenica iniziarono a scendere in corriera dalle valli pure frotte sempre più numerose di contadini.

Costoro, con la scusa di qualche fiera di attrezzi agricoli o di animali si recavano, in realtà, là dove di fiere ce n’era sì una, ma purtroppo di tutt’altro genere.
E fra tutte queste varie tipologie di clienti, chi poteva farlo evitava di frequentare le case chiuse della propria città per ovvie ragioni di riservatezza. In tal modo si innescava spesso un pendolarismo sessuale da Trento verso Bolzano (celebre nella città del Talvera, il «Navarro», o la «casa» di via Conciapelli), oppure verso Rovereto e viceversa.

A Trento, fino al settembre del 1958, erano tre le case «ufficiali» in funzione: quella di via Brennero, frequentata più che altro dai militari presenti nel capoluogo (durante la Prima Guerra una casa «per soldati» era pure presente in via Malpaga e, negli anni ’40, una in via Petrarca), poi una casa in via San Martino e un’altra in via Secondo da Trento, nei pressi della vecchia caserma dei pompieri, in piazza Centa. Per via di questa sua collocazione, nel gergo dei trentini «andare dai pompieri» aveva assunto negli anni un significato ben preciso che nulla, ovviamente, aveva a che vedere con i vigili del fuoco. Qui, in un’antica palazzina, nascosta in parte da un’alta fila di platani, era ospitata la casa più importante della città. Lì, seduti su delle panche poste al perimetro della stanza, i clienti potevano osservare le «signorine», poi scegliere quella che più piaceva e quindi salire nelle camere. Sulla sala, inoltre, si affacciavano quattro stanze - i «salottini», come venivano chiamati - usati da quei clienti più danarosi che volevano mantenere un assoluto riserbo sulla loro visita.

A Rovereto, invece, circa negli stessi anni operava una sola casa di tolleranza. Era l’ultima di una sparuta pattuglia di casini che sin da tempi immemorabili erano presenti in città. La più antica casa di incontri di cui si ha cognizione, già esistente nel ’600, era quella che alcuni ricercatori individuano oggi in Via della Terra, al civico 27, dove oggi (ironia del destino!) è ubicata l’associazione «Casa delle donne».
Due secoli più tardi, una casa di tolleranza troverà collocazione in Scala della Torre, fra Piazza Erbe e Via della Terra, dove attualmente si trova una trattoria tipica, mentre negli anni ’30 del Novecento, pare che un altro bordello fosse collocato in una casa isolata in Via Ronchi, nei pressi della S.S. 12, vicino all’attuale caserma dei pompieri.

Tuttavia, il bordello che rimase in attività fino all’inizio degli anni Cinquanta - quindi fino a pochi anni prima che la legge decretasse la chiusura delle case - fu quello ospitato nei locali di un’elegante palazzina in stile liberty - chiamata allora «Villa delle Rose», tuttora esistente in Lungo Leno destro, a quel tempo zona del tutto isolata dal contesto cittadino. Lì, in quella casa borghese, dedicata in particolar modo ad un erotismo altolocato, sembra esercitassero la loro professione 3 -4 giovani donne, le quali ogni quindici giorni lasciavano il posto ad altrettante, secondo la vecchia regola dell’avvicendamento per evitare che nascessero legami troppo stretti con i clienti.

All’interno della villa, nella prima sala in cui venivano ricevuti gli «ospiti», era collocata bene in vista una targa che riportava le tariffe. Verso la metà degli anni ’50 ogni prestazione costava da un minimo di 200 lire (5 minuti in una «casa» di terza categoria) fino a 8.000 (un’ora in una «casa» di lusso), cioè in moneta attuale, per approssimazione, da 3 a 95 euro. Detto così, sembra molto poco, ma tenendo conto che ogni ragazza «serviva» da 30 a 50 clienti al giorno, il totale che si ottiene non è affatto indifferente. Inutile dire che a fronte di tali ritmi a dir poco disumani, solo una parte infinitesimale di quell’enorme fiume di denaro finiva in mano alle prostitute. La parte più cospicua, infatti, andava ai tenutari delle case e, in percentuale, alle casse statali, le quali incameravano annualmente circa 100 milioni di lire, pari a 1,2 milioni di euro di oggi.

In cambio, lo Stato forniva alcuni servizi, fra cui la registrazione agli Uffici del Lavoro che prevedeva, fra l’altro, un periodo di apprendistato e il versamento dei contributi obbligatori per la pensione e la disoccupazione. C’era poi il servizio sanitario attraverso il quale un ufficiale medico eseguiva due-tre visite di controllo alla settimana. Inoltre, doveva essere tenuto con scrupolo un Registro giornale nel quale veniva descritta in maniera dettagliata ogni cosa attinente l’andamento dell’impresa, come ad esempio i nomi delle ragazze in servizio, le loro assenze, le ispezioni sanitarie e le generalità dei clienti. In più è da dire che ogni tre anni la prostituta doveva rinnovare tutti i documenti fra cui il suo certificato di moralità che attestava essere, oltre ad un’integerrima cittadina, pure una brava cristiana dedita ai sacramenti.

Con il 1958, ormai sappiamo, tutto ciò venne azzerato. A Trento, quel giorno, un attento testimone, forse non del tutto disinteressato, annotò: «Mi trovavo lì per lavoro e vidi una gran folla in via San Martino. Era la coda per l’ultimo giorno di apertura della casa di tolleranza». A Rovereto, invece, la casa lungo il torrente Leno aveva già sospeso l’attività da tempo ed era stata venduta.

Fra le prostitute ci fu chi riuscì a tornare ai propri paesi e alle famiglie di origine. Altre, soprattutto quelle convinte di essere in grado di fare solo quel mestiere, si «riciclarono» in proprio, oppure trovarono un protettore. Altre, ancora, riuscirono a farsi sposare da qualche ricco e vecchio cliente, rientrando in una normalità che forse per anni avevano solo sognato.

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