Bene il merito, ma chance a tutti

Bene il merito, ma chance a tutti

di Alessandro Tamburini

In ogni classe di scuola si gioca una partita difficile, complessa, appassionante, che vede in campo insegnanti e alunni, da cui se le cose vanno bene si può uscire tutti vincitori. Quando non succede la colpa non è solo degli interpreti, ma anche di chi ha stabilito le regole, deciso le condizioni in cui la partita si svolge. E una delle più importanti riguarda il numero dei giocatori, cioè degli alunni presenti in una classe. La questione è stata già sollevata molte volte in passato, ma oggi nessuno ne parla più.

Purtroppo ha preso piede anche nella scuola uno spirito di accettazione passiva rispetto a tante cose che non vanno, che sa di rassegnazione, o di ignavia. Le classi più numerose consentono di ridurre il numero degli insegnanti, di risparmiare soldi, di contenere o tagliare ancora la spesa del comparto Istruzione, impresa per cui da decenni si adoperano governi di alterno colore ma in questo poco dissimili.
Salvo poi diffondere comunicati dai toni allarmanti sulla dispersione scolastica e i tassi di abbandono.


Eppure è del tutto evidente che il numero di alunni di una classe è determinante per la qualità e l’esito dell’insegnamento, che variano radicalmente se i ragazzi sono una ventina o invece molti di più, fin quasi una trentina, come a volte accade.


Un piccolo esercito, con cui diventa un’impresa anche solo mandare a memoria il nome di ognuno. Trenta sguardi da tenere allacciati al mio, e quello degli alunni seduti nei banchi in fondo mi sfugge. Per interrogare tutti su un certo argomento impiegherò due settimane di lezioni e così avrò meno tempo per spiegare, approfondire, ripetere quanto ci sarebbe bisogno. Dovrò perciò fare maggior ricorso alle verifiche scritte, anche se questo va a detrimento del lavoro sulla capacità di esprimersi, di trovare le parole per dire le cose, che reputo invece imprescindibile. I voluminosi pacchi di temi mi richiederanno a loro volta un sovrappiù di tempo ed energie, col rischio di non poter dedicare a ciascuno tutta l’attenzione che merita. Ma c’è altro, e non meno importante.


Per raggiungere gli esiti che mi prefiggo devo riuscire ad allacciare un rapporto non solo didattico ma anche di tipo personale, relazionale, in base a esigenze, capacità, disponibilità di ciascuno. Con trenta alunni questo risulta improbo, e per quanto io mi sforzi di seguire tutti, di non perdere nessuno, a pagarne il prezzo maggiore sono gli alunni più deboli e problematici, Quelli che partono con un handicap, con una situazione di difficoltà di cui sono solo in parte responsabili.


Penso allo studente che ha appena cambiato scuola ed è disorientato, impiega più degli altri a capire e a svolgere le consegne. Oppure al ripetente, che senza la vigilanza dell’insegnante corre il grosso rischio di rimettersi sul binario sbagliato che l’ha fatto deragliare l’anno precedente. A quello che ha difficoltà a esprimersi, a causa di un carattere introverso, o perché nella sua famiglia si parla il dialetto, o una lingua straniera. A un altro che la famiglia non ce l’ha proprio, oppure ne ha una che non lo segue, non gli è di alcun aiuto, anzi è per lui fonte di disagio profondo. Ad altri che per un qualunque motivo vivono un’adolescenza particolarmente travagliata e sconnessa e per questo accusano sbandamenti improvvisi, lunghi passaggi a vuoto, momenti di scollamento.


Alla fine sono sempre loro a lasciarci le penne, e possono essere tanti. A volte perfino un terzo della classe, nei primi anni di certi Istituti Superiori.


Dopo una lunga esperienza di insegnamento continuo poi a vedere confermato un dato che è stato vero sempre e non lo è meno oggi: quelli che non ce la fanno, che a novembre, o a febbraio, smettono di venire a scuola, o che vengono bocciati agli scrutini di giugno, sono per la maggior parte ragazzi di famiglia povera, disagiata. Quelli che hanno alle spalle una situazione economica e un livello culturale inferiori rispetto ai compagni.


A distanza di mezzo secolo, insomma, permane una situazione non molto dissimile da quella denunciata da don Lorenzo Milani nel suo Lettera a una professoressa: la scuola opera ancora una selezione per cui tende a confermare e rimarcare le divisioni di classe già esistenti in partenza. Non si tratta di una mia opinione. Un recente rapporto dell’Ocse conferma che avere almeno un genitore laureato e crescere in una casa dove ci sono più di cento libri fa la differenza fra chi a scuola va bene e chi rischia di finirne fuori. E che un alunno su sei non porta a termine la scuola superiore.


Del prete di Barbiana, nel cinquantenario della morte, si è parlato e scritto molto, come di un grande e stimato protagonista, però nessuno ha creduto necessario sottolineare come la sua denuncia sia ancora del tutto attuale.
Quest’anno invece ricorre il cinquantenario del ’68 e dobbiamo prepararci a sentirne parlare oltre misura. Verrà di certo ricordato ed esecrato come in quegli anni alla piaga della selezione nella scuola si oppose lo slogan del sei politico, che oggi ci appare datato e inaccettabile.


Tante cose sono mutate da allora. La meritocrazia che ai giovani contestatori sembrava un nemico da combattere, oggi appare di gran lunga come il male minore, anzi come un valore troppe volte disatteso e vilipeso.
Come insegnante credo sia giusto adoperarmi per incoraggiare e valorizzare gli alunni migliori. Però credo che la scuola pubblica abbia anche il dovere di permettere a tutti di provarci. Di dare a ciascuno, ricco o povero che sia, un’opportunità degna di questo nome.

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