La sfida dei robot al lavoro umano

La sfida dei robot al lavoro umano

di Pierangelo Giovanetti

Tra le tracce del tema di italiano all'esame di maturità 2017, la più gettonata dagli studenti è stata quella su lavoro e nuove tecnologie: robot e intelligenza artificiale uccideranno l'impiego dell'uomo? È il segno che le nuove generazioni si pongono seriamente la questione, che deciderà del loro futuro. Ci aveva già pensato nei mesi scorsi Bill Gates a sollevare l'argomento, proponendo di tassare i robot. Il cambiamento è epocale se si calcola che in meno di dieci anni, nel 2025, l'intelligenza artificiale permeerà ogni aspetto della nostra vita, in particolare in settori come salute, trasporti, logistica, servizi ai consumatori e manutenzione della casa. Questo almeno è quanto sostengono duemila esperti e analisti intervistati dal Pew Research Center di Washington.

Le conseguenze della trasformazione in atto sono già percepibili su larga scala: i mega-centri commerciali americani, simbolo del consumismo sovrano, sono in piena crisi, come tutti i grandi magazzini, messi in ginocchio dal tornado Amazon e dalle vendite online che hanno modificato le abitudini dei consumatori. Anche in Italia la battaglia è in corso e i grossi gruppi della distribuzione, Esselunga in testa, si stanno attrezzando a combattere la guerra dell'automazione e dell'acquisto digitale. È solo un esempio della velocità della rivoluzione che sta investendo tutti i settori, in particolar modo il manifatturiero che in Italia ha un peso cruciale, visto che siamo i secondi produttori d'Europa. Ma è proprio vero che la tecnologia 4.0 ucciderà il lavoro e i robot sostituiranno il 66% dell'utilizzo umano come taluni sostengono? Dobbiamo tassare l'automazione e combattere le macchine in una sorta di neo-luddismo del ventunesimo secolo?

L'avvento dell'intelligenza artificiale costituisce una sfida epocale ai governi, alle imprese, ai sindacati, alla società intera, ma se affrontata in chiave semplicemente di conservazione nostalgica del vecchio mondo, è già persa in partenza. Molti degli approcci catastrofisti che si rincorrono nascono da qui, dall'incapacità di affrontare il nuovo mondo con nuove categorie di pensiero, di approccio imprenditoriale, di visione sindacale, di politiche fiscali. Trincerarsi nel difendere l'esistente non serve, anzi peggiora le cose. Occorre invece attrezzarsi perché l'automazione generi opportunità, figure professionali, servizi alla persona, accresciuta produttività e quindi valore, che può diventare redistribuzione di reddito. Su questo bisognerà puntare, rimodulando profondamente la tassazione e la spesa pubblica.

Oltre alle politiche formative e di promozione del lavoratore, più che di protezione del posto di lavoro, come ottusamente parte del sindacato, in particolare la Cgil della Camusso, si ostina a pensare con lo sguardo rivolto al Novecento invece che all'oggi e alle generazioni future. Del resto la storia insegna: le macchine, quelle meccaniche, dalle auto ai treni, hanno creato lavoro più di quanto ne hanno distrutto. Stessa cosa è avvenuta con l'avvento dei pc e dei software, che hanno sì cancellato il posto di milioni di impiegati, ma hanno rivoluzionato non solo il modo di produrre, ma di vivere, generando professioni, modalità di lavoro e opportunità impensabili prima degli anni Ottanta. 

Ora la sfida è l'intelligenza artificiale. L'utilizzo dei robot di ultima generazione alla FCA di Melfi, per fare un esempio, ha reso nuovamente competitiva la Fiat che è ritornata ad assumere per realizzare le jeep in Italia, e senza costringere i lavoratori a respirare le esalazioni della saldatura. Affinché l'intelligenza artificiale diventi fattore di crescita inclusiva e non di distruzione di lavoro (cioè di dignità e di vita), e soprattutto affinché non scateni una guerra sociale planetaria, occorre però uno slancio creativo nel rimettersi in gioco, a tutti i livelli. Puntando ad una centralità del fattore umano, e della sua flessibilità e adattabilità al continuo cambiamento.

Dal punto di vista politico la questione lavoro diventa pertanto centrale, ma con strumenti e schemi mentali diversi dal passato. Innanzitutto rendendo l'innovazione tecnologica «obbligatoria», incentivando gli investimenti dell'Industria 4.0 con sgravi fiscali e iperammortamenti come sta facendo il piano del ministro Calenda dei governi Renzi e Gentiloni. Questo deve portare le aziende ad una riorganizzazione del lavoro, accrescendo la produttività aziendale, premessa indispensabile per consentire competitività dell'impresa (e quindi sopravvivenza futura), eventuale incremento di personale, e soprattutto contratti di redistribuzione del valore creato consentendo aumenti salariali. Attorno a tale rivoluzione 4.0 va rimodulato l'intero sistema della mobilità, della rigenerazione urbana delle città, del territorio. Non basta la fabbrica intelligente, è l'intero eco-sistema di vita quotidiana che deve diventarlo.

Tutto ciò va affiancato da una riduzione significativa e strutturale del cuneo fiscale sul lavoro. Bisogna tassare la ricchezza prodotta, non la tecnologia per produrla. Vanno colpite le rendite finanziarie e le elusioni internazionali delle società high-tech, non il costo del lavoro. Gli incentivi positivi introdotti dal governo Renzi andrebbero ora affinati, rendendo selettiva la decontribuzione delle assunzioni (anche per renderne più compatibili i costi), indirizzata soprattutto alle imprese che non riducono gli organici o ricorrono a continui turn over di tempi determinati, puntando sul capitale umano attraverso la formazione.

Se i crediti d'imposta per ricerca e sviluppo sono un passo importante, insieme alla decontribuzione per la stabilizzazione dell'impiego giovanile, fondamentale resta però l'incentivo alla produttività del lavoro. Il Jobs Act è stato un primo rilevante intervento in tale direzione. Ora serve però una forte spinta a una diversa contrattazione, non più ingessata da pesanti e indifferenziati contratti nazionali, ma incentrata sulla contrattazione aziendale, legando ogni aumento salariale a produttività e redditività dell'impresa.

Come ormai hanno capito le frange più innovative del sindacato (vedi le posizioni di Marco Bentivogli della Fim Cisl, o di Franco Ianeselli a livello regionale), il contratto nazionale è chiamato a dare regole minime omogenee, e poi il resto va lasciato a una contrattazione sartoriale, decentrata, in prossimità con l'azienda e il territorio. Su questo il sindacato ha ancora lunga strada da fare nel liberarsi dell'idea corporativa della rappresentanza, dell'antagonismo esistenziale rispetto all'impresa. L'industria intelligente ha bisogno del «sindacato intelligente», non di quello che va in piazza, come sabato l'altro a Roma, a fare dei voucher una battaglia ideologica. Ha bisogno di un sindacato capace di favorire la creazione di lavoro, non la frusta e demagogica rivendicazione di «posti di lavoro».

Infine, un terzo determinante fattore di successo perché l'avvento dei robot non segni la fine del lavoro, è la formazione. C'è bisogno di una robusta e strutturata istruzione di base (i computer i giovani li sanno già usare, sono i fondamenti del sapere che gli mancano). E su questa preparare i giovani alla flessibilità, che sarà di vita prima ancora che di lavoro, e alla capacità di apprendere e di risolvere i problemi. La parte innovativa della scuola deve prevalere sull'ideologia di conservazione e sulla mentalità burocratica di una parte non secondaria - purtroppo - di insegnanti, come s'è visto nell'opposizione cieca e preventiva di molti verso il trilinguismo e l'alternanza scuola-lavoro. Tutto questo insieme ad un investimento permanente alla formazione e all'aggiornamento del cittadino-lavoratore, specie nel caso di crisi aziendali e di cambiamenti lavorativi. Allora la sfida dei robot e dell'intelligenza artificiale non segnerà la fine del lavoro, ma semplicemente l'avvio di un nuovo modo di lavorare (e di vivere).

p.giovanetti@ladige.it
Twitter: @direttoreladige

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