La sconfitta di Theresa May

La sconfitta di Theresa May

di Gianni Bonvicini

Forse il vento dell’euroscetticismo sta cambiando direzione. La parziale sconfitta di Theresa May in quella che lei stessa aveva definito la «Brexit election», cioè il definitivo suggello al risultato referendario di un anno fa sull’uscita della Gran Bretagna dall’UE, rappresenta un segnale importante. Se poi, esaminando i risultati dei singoli partiti in queste elezioni shock, si scopre che quello ferocemente antieuropeo di Nigel Farage, l’Ukip, non si è aggiudicato neppure un seggio e che i liberali filoeuropei hanno parzialmente migliorato la loro presenza in parlamento con 4 seggi in più, allora comincia a farsi strada il sospetto che il tema dell’addio della Gran Bretagna non sia più così centrale nella percezione della gente. Ciò non significa che se la May riuscirà a formare un governo, magari con gli Unionisti del Nord Irlanda, il negoziato per la Brexit si blocchi. Ma sarà molto più difficile ora la strada per Theresa May.

Sarà certamente molto più difficile per una leader molto indebolita strappare un buon risultato negoziale al resto dell’Ue. Se per la scettica Gran Bretagna, da sempre partner riluttante dell’Ue, la questione del futuro dell’Unione non si porrà più, purtuttavia l’atteggiamento meno antieuropeo che emerge dalle elezioni rappresenta la conferma di altri segnali importanti in questa direzione emersi in altri paesi in un anno, il 2017, denso di appuntamenti elettorali nazionali.

Il primo si era già avuto alla fine dell’anno scorso con la vittoria del pro-Ue Van Der Bellen nelle elezioni presidenziali austriache, seguito a ruota dalla conferma in primavera del premier olandese Mark Rutte contro l’eurofobico Geert Wilders. La sensazione che la direzione del vento cominciava davvero a cambiare è venuta dalla straordinaria affermazione di Emmanuel Macron, un politico quasi sconosciuto e privo di un partito alle spalle, alle presidenziali francesi.

Un Macron che, molto più di  Rutte e di Van Der Bellen, faceva dell’impegno a rilanciare l’Ue il tema centrale della sua campagna elettorale. Ed il fatto che oltre il 60% degli elettori francesi lo abbia seguito contro le ricette nazionaliste di Marine Le Pen rappresenta un passaggio decisivo verso un clima nuovo di maggiore fiducia verso l’Unione.

Questi fatti sono poi confermati da una recente indagine della Commissione che nell’Eurobarometro di aprile segnala che circa la metà degli intervistati, il 47%, ancora crede nell’Europa, contro un 46% che continua a rifiutare l’dea di una maggiore integrazione: ma il dato interessante è che i favorevoli sono cresciuti di 11 punti rispetto all’ottobre del 2016, poco più di sei mesi prima. È evidente che questo mutamento nell’opinione pubblica si deve in parte al miglioramento della situazione e delle prospettive economiche che si stanno manifestando in tutta Europa.

Bisogna anche aggiungere, che al di là di dati economici oggettivi, è il ruolo dei leader a fare la differenza. Un Macron che rovescia il discorso degli euroscettici e punta decisamente al miglioramento del processo di integrazione europea ne è l’esempio più convincente. Bisognerà ora vedere se da domenica in poi, con il primo turno delle elezioni parlamentari francesi, Macron riuscirà nel miracolo di creare quel partito che ancora gli manca e che è necessario per fornirgli la maggioranza necessaria per governare la scommessa sull’Europa.

Passaggio decisivo per dare forza anche all’alleanza con la Germania che sta preparandosi alle elezioni del 24 settembre. Anche in questo caso l’atteggiamento di Angela Merkel, ma anche del contendente socialista Martin Schultz, è quello di mettere al centro il tema del rafforzamento dell’Unione. La ragione è abbastanza evidente.
Oggi la Germania, ma con essa l’Europa, sono sotto assedio. A Nord il difficile negoziato sulla Brexit, ad Est le tentazioni semi-imperiali di Putin, a Sud la grande sfida dell’immigrazione e dell’instabilità in Medio Oriente e Nord Africa e, grande novità, il problematico rapporto ad Ovest con Donald Trump. Già Angela Merkel ha dichiarato che «l’Europa deve prendere il destino nelle proprie mani» e questo sarà il tono della sua campagna elettorale. Da qui potrà nascere l’impulso, assieme a Macron, di un rilancio di alcune politiche europee sia nel campo economico che in quello della difesa. E l’Italia? Rischia di essere ancora una volta il ventre molle dell’Unione. Lasciamo da parte, per una sorta di pudore nazionale, l’incomprensibile spettacolo sulla nuova legge elettorale.

Torniamo per un momento alle statistiche della Commissione: in Italia solo il 39% sostiene l’Ue, addirittura di un punto sotto all’euroscettica Gran Bretagna. I contrari si collocano al 48%. Ma pur guardando con prudenza ai sondaggi di opinione, basta leggere le dichiarazioni dei partiti sull’Ue per rendersi conto che una larga maggioranza è quanto meno euroscettica: M5S, Lega Nord, Fratelli d’Italia, gran parte di Forza Italia non perdono occasione per criticare Bruxelles.

Ma perfino il Pd, o meglio il suo leader attuale Matteo Renzi, non si dimostra particolarmente in linea con l’Ue. Sembra di assistere ad una gara fra chi critica di più, senza mai porsi il problema di una realistica alternativa all’Ue. In questa confusione politica interna e di mancanza di strategia nei confronti dell’Ue non è neppure stupefacente che la gente non creda, come nel passato, nel valore dell’integrazione. Ma attenzione, perché se l’Europa riparte sulla base di una rinnovata alleanza fra Parigi e Berlino, il rischio per noi è di rimanerne esclusi. O almeno essere relegati nel secondo cerchio di un’Unione che ormai si muove nella prospettiva di più velocità. Per un paese fondatore come l’Italia, e a cui Macron chiede insistentemente di esserci, perdere quest’occasione sarebbe deleterio.

È opportuno quindi che le forze politiche nazionali o alcune di esse, in un soprassalto di ragionevolezza, riprendano un impegno di sostanza e non solo di facciata sul futuro dell’Ue.

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