Farmaci e prezzi: il potere di Big Pharma

Farmaci e prezzi: il potere di Big Pharma

di Paolo Zanini

Il legame tra economia e salute è giustamente al centro del Festival dell’Economia di quest’anno. Non per caso, naturalmente, ma per una corretta percezione dei temi più caldi dell’attualità.
Altrettanto non a caso, in numerose occasioni del Festival si ragiona sul tema del prezzo dei farmaci.
È, infatti, una questione scottante, addirittura esplosiva, che ha dimostrato di poter mettere a rischio la stabilità economica dei welfare. La crescita della spesa pubblica per i farmaci innovativi è tendenzialmente fuori controllo.

Il tema ha però bisogno di essere messo a fuoco correttamente: non si tratta di mera economia, ma di scelte politiche, ed i tempi sono maturi per una riflessione pubblica su quanto fatto negli ultimi 30 anni.
Oggi Big Pharma, il soprannome dato alle grandi multinazionali del farmaco, ha un potere immenso.

In assenza di alcuna concorrenza reale, perché ogni industria si crea il suo monopolio specialistico ed evita di invadere lo spazio altrui, il produttore decide il prezzo dei farmaci al di fuori di ogni logica di mercato.

Il percorso di sviluppo dei farmaci è lungo e difficile: la ricerca di base analizza ed identifica i possibili modelli di sviluppo, la ricerca «preclinica» porta alla messa a punto del farmaco sperimentandolo su modelli animali, le fasi della ricerca clinica sull’uomo portano infine al farmaco vero e proprio che, se dimostra efficacia e sicurezza adeguate, viene autorizzato dalle autorità nazionali (Aifa) o europee (Ema) e quindi commercializzato.

La «scusa» dei prezzi elevati è nel fatto che il privato si assume il rischio dell’insuccesso; rischio concreto ed elevato, in effetti. Ma non va dimenticato che la maggior parte del rischio, quello legato agli investimenti nella ricerca di base e preclinica, lo ha già assunto e sostenuto la collettività finanziando Università e bandi di ricerca.
Arrivati alle ultime fasi del processo di sviluppo, le fasi cliniche, oggi il pubblico si ritira e lascia l’esclusiva ai privati della possibilità di chiudere il percorso. Se un privato non è interessato, perché non vede una possibile adeguata remunerazione, il farmaco non viene sviluppato.
Questa non è una scelta economica ma politica: si fa una cosa importante per la collettività (un farmaco) solo se un privato ci può guadagnare.

È un modello che è il simbolo, e una delle conseguenze più concrete, del neoliberismo nato con Reagan e Thatcher: lo Stato deve lasciare l’iniziativa ai privati e fare solo il controllore. Naturalmente lo sviluppo degli interessi privati in sanità ha dimostrato ampiamente, come nel caso esemplare degli Stati Uniti, che il risultato è un sistema sanitario iniquo, costosissimo e socialmente inefficiente. Basso tasso di salute ma grandi guadagni per industria, assicurazioni ed investitori.

Le distorsioni generate da questo modello a livello di cultura medica sono evidenti a tutti gli osservatori: non solo prezzi fuori controllo, ma una medicina fondata sul farmaco più che sulla cura, ed una ricerca orientata verso i farmaci redditizi e le terapie croniche molto più che sui bisogni di salute della popolazione.

L’alternativa c’è: se il pubblico, cioè la collettività, torna ad assumersi il carico ed il rischio degli ultimi passi per immettere i farmaci sul mercato, dalla «clinica» alla registrazione, potrebbe poi riconoscere all’industria il prezzo del lavoro «industriale» (produzione, distribuzione, ecc.), come nel caso dei farmaci generici, e la collettività pagherebbe i farmaci molto meno. Soprattutto si creerebbe un minimo di concorrenza, il che in un monopolio vuol dire depotenziare le possibilità di ricatto.

Questo il concetto in estrema sintesi: naturalmente la cosa si declina poi in azioni concrete, come l’emissione di bandi di ricerca per finanziare questi processi che coinvolgano Istituti di ricerca ed Industria condizionati da processi valutativi trasparenti. Scelte che sono nel potere dei decisori politici. L’equilibrio tra pubblico e privato è oggi «la scelta politica».

Il Senso Comune del fatto che lo Stato deve fare solo passi indietro, ha condizionato i nostri pensieri a tal punto che non si è riusciti fino ad ora ad aprire un dibattito pubblico su come agire per riportare un minimo di vera concorrenza in questo mercato fondamentale.

È giunto il momento di farlo. Se i privati non hanno interesse ad essere soggetti concorrenziali, il pubblico deve assumere un maggiore ruolo di protagonista riportando al centro il pendolo del mercato regolato.
Manzoni avrebbe detto, come nel trentaduesimo capitolo de «I Promessi Sposi»: «Il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune».

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