Italia, un paese ostaggio del Tar

di Pierangelo Giovanetti

La decisione del Tar del Lazio di annullare le nomine di cinque direttori dei maggiori musei nazionali perché «non italiani» in quanto selezionati con un bando internazionale è l’ennesimo esempio di un Paese, l’Italia, ostaggio dei Tribunali amministrativi, diventati arbitri assoluti di ogni scelta della pubblica amministrazione nel nome del ricorso e dell’uso del cavillo.

Non c’è ormai ambito, livello istituzionale, atto ministeriale che non sia sottoposto alla paralisi sistematica dei Tar, i quali si ergono a contropotere supremo estendendo a dismisura il proprio ruolo e competenze, in una sorta di protagonismo giudiziario assoluto che non tiene mai conto degli effetti dei loro blocchi. Spesso disastrosi sulla vita dei cittadini e sul funzionamento dei servizi pubblici - come nel caso dei musei che richiamano visitatori da tutto il mondo - invocando formalismi di lana caprina.

Il caso dei direttori dei musei è da manuale. Ampliando in maniera arbitraria e discrezionale la propria competenza su una scelta, quella di dirigenti pubblici di alto livello, che è di tipo fiduciario e privatistico, il Tar del Lazio ha cassato le nomine del ministero -e di fatto bloccato la riforma museale del ministro Franceschini - opinando sul fatto che i prescelti fossero di nazionalità diversa da quella italiana.

Ora, nel momento in cui in Europa c’è il totale e libero movimento di merci e di persone, con l’idraulico polacco che può operare in Italia e il manager italiano che va a dirigere la National Gallery di Londra (il nostro bravo connazionale Gabriele Finaldi), uno storico dell’arte di livello internazionale come Assmann non può dirigere Palazzo Ducale a Mantova perché nato in Tirolo. E questo non perché lo dice la legge, ma perché lo vuole il Tar del Lazio.

Il pretesto invocato che ci voleva una legge prioritaria per poter fare un concorso internazionale ammettendo anche i non italiani è platealmente infondato: il diritto comunitario prevale sulla legge italiana, come peraltro già ribadito dal Consiglio di Stato. Tanto più che il principio che nulla osta a che un cittadino europeo possa guidare un museo italiano è stato ribadito prioritariamente da parte di magistrati del Consiglio di Stato su richiesta di parere da parte del ministero. Inoltre la Corte di giustizia europea ha stabilito con chiarezza che non ci possono essere discriminazioni per nazionalità all’interno della Ue. Anche la balzana contestazione che le audizioni non siano state pubbliche perché avvenute in video conferenza non sta in piedi, visto che è tutto registrato ed è a disposizione di chi volesse verificare.

Nonostante questo, la smania interpretativa che una certa magistratura militante si è attribuita in questi anni ha portato ad occupare spazi che appartengono agli eletti dal popolo e non alle toghe estendendo a piacere il proprio ambito operativo. Con il risultato che musei i quali, grazie alla riforma, hanno ripreso a funzionare e ad attrarre visitatori come mai è avvenuto prima, ora sono bloccati. In attesa di un’altra sentenza, questa volta del Consiglio di Stato, che si pronunci se un europeo possa lavorare in Italia e se una scelta manageriale fiduciaria di vertice possa avvenire con l’aiuto di una commissione di esperti internazionali (come è stato fatto), o se invece serve il placet del Tar.

In attesa che al più presto intervenga il Consiglio di Stato con una sospensiva, e poi ribaltando una sentenza che fa acqua da tutte le parti, una riflessione profonda va fatta su questa tracimazione strabordante di poteri, in atto ormai da tempo in Italia con i Tribunali amministrativi, e non solo. Pensiamo alla bocciatura della sospensione governativa del metodo Stamina bloccata dal Tar; o allo stop dell’insegnamento in lingua inglese al Politecnico di Milano, imposto sempre dai tribunali amministrativi. Pensiamo ai ricorsi e ai controricorsi che impediscono ormai qualsiasi opera pubblica in Italia e in Trentino (dall’ospedale Not di Trento, che dopo 18 anni dalla decisione è ancora sulla carta e sub iudice, alla Manifattura di Rovereto, con il rischio di perdere i fondi europei).

Il Tar è diventato l’alleato più potente delle burocrazie spadroneggianti e dell’immobilismo conservatore di una buona fetta del ceto politico che non vuole cambiare nulla in una sorta di necrofila attrazione del declino.
In questo in piena sintonia con una parte - purtroppo ancora rilevante - di sindacato che, per stare all’ambito della cultura, si oppone al direttore della Reggia di Caserta in quanto lavora troppo e fa sfigurare gli altri dipendenti, o al sovrintendente di Pompei che non si arrende al blocco totale delle visite agli scavi perché è indetta l’assemblea sindacale, e pertanto viene denunciato ai carabinieri.

Ora, non si tratta di abolire i Tar come qualcuno ha pur sostenuto preso da infinito sconforto di fronte a cotali sentenze. Nè si tratta di nascondersi sulle lentezze della politica, che gioca sui rimandi per non assumersi responsabilità. E nemmeno va sottovalutato il ginepraio di leggi che dominano in Italia, per cui qualunque tribunale può arrogarsi il diritto di interpretare quella che vuole, pontificando così a piacere, magari in piena discordanza con quanto deciso da un altro tribunale. Si tratta però, come ha giustamente fatto notare il ministro alla Giustizia Andrea Orlando, di riformare i tribunali amministrativi, definendo meglio i loro ambiti, le competenze e i loro poteri, così da evitare abusi che sono sotto gli occhi di tutti, e la paralisi del Paese. Basta infatti che un qualunque ricorrente escluso da una gara presenti una carta bollata e si blocca tutto, rimandando alle calende greche.

Occorre che per legge venga stabilito in maniera chiara quali sono gli ambiti (anche discrezionali) della politica, che ne risponde di fronte agli elettori sovrani, e quali quelli del tribunale che non può arrogarsi il potere di decidere in ambiti che sono politici, come le scelte fiduciarie dei direttori dei musei. Certo, deve essere una riforma del sistema giudiziario amministrativo che ribadisca l’indipendenza dei giudici e la loro autonomia dai politici. Ma che in maniera altrettanto chiara stabilisca che il tribunale non è la corte suprema  delle scelte politiche, perché queste devono venir giudicate dagli elettori non dalle toghe. Così almeno avviene in democrazia.

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