Lavoro e sindacato entrano nelle agende politiche dei partiti, e questo non è necessariamente un male. Diverso è il modo in cui ciò avviene. Poco importa che i neo ideologi del lavoro non abbiano la benché minima idea di come si eserciti la democrazia rap

Lavoro e sindacato entrano nelle agende politiche dei partiti, e questo non è necessariamente un male. Diverso è il modo in cui ciò avviene. Poco importa che i neo ideologi del lavoro non abbiano la benché minima idea di come si eserciti la democrazia rappresentativa nei luoghi di lavoro, non abbiano mai messo piede in una fabbrica o gestito vertenze aziendali il cui risultato dipende sempre da necessarie mediazioni tra diversi portatori di interessi o ancora che l’alternativa italiana ai sindacati non sarebbe la mitbestimmung tedesca ma l’abbandono di milioni di lavoratori a se stessi.La proposta del partito antieuropeista per antonomasia va a braccetto con quanto da anni l’Europa chiede (e in molti casi ottiene) ai paesi membri: disintermediare il rapporto tra imprese e lavoratori. C’è chi guarda alla quarta rivoluzione industriale e chi invece vuole tornare alla prima, quando la giornata lavorativa durava 16 ore, si ripeteva per 6 giorni ogni settimana, 52 settimane l’anno anche per donne e bambini. Senza, ferie, malattia e tutela alcuna, in pessime condizioni ambientali e di sicurezza. Tutto questo «nonostante» il sindacato non esistesse ancora.In questi anni gli accordi sindacali siglati nelle vertenze industriali del paese hanno salvato centinaia di migliaia di posti di lavoro. Lo smartworking, oggi propaganda di politicanti senza esperienza di quali siano le concrete questioni da affrontare nell’implementazione del «lavoro agile» nei luoghi di lavoro, è da tempo oggetto di accordi sindacali: General Motors, Vodafone, Barilla, ABB, Nestlè solo per fare alcuni nomi noti.Aboliamo il sindacato! Con tutti i suoi limiti e contraddizioni, catalizzata dal crescente disagio sociale e con il potere mediatico della retorica populista, la proposta potrebbe addirittura piacere anche perché, come ogni campagna di marketing ideologico che si rispetti, abbina sapientemente mezze verità a pregiudizi e caricature ormai radicate nell’opinione pubblica e nell’immaginario collettivo.Ma la vera questione per il sindacato non sono le proposte del M5S, ma il sindacato stesso. Come rispondere nei fatti alle accuse portate? Come dare contenuto e forma alla rabbia e alle vulnerabilità che minano quella coesione sociale su cui si radica ogni sentimento di collettività e solidarietà? Non certo con la retorica stantia e autoreferenziale sulla rilevanza storica del movimento operaio.Occupandoci invece di riconquistare credibilità, valorizzare e comunicare competenze e risultati, riconoscere i limiti di un «brand» troppo legato a modelli di tutela categoriali e scarsamente universalistici. A cominciare dai giovani, per i quali la favola dei diritti acquisiti ha ormai assunto le forme e la sostanza di privilegi negati non più socialmente e moralmente accettabili.La consapevolezza dell’indispensabile ruolo del sindacato come fattore costruttivo di ordine sociale e solidarietà, va ricostruita liberandoci da schemi autoreferenziali e liturgici che in molti casi ci hanno allontanato dalla realtà e dalle persone.Sfide epocali quelle che ci attendono, possibili attraverso cambiamenti «radicali, rifondativi e rigenerativi» (Marco Bentivogli, segretario nazionale metalmeccanici Cisl). Necessari, aggiungo, per immaginare scenari e costruire risposte a quelle sfide: per la piena occupazione, per una nuova responsabile e consapevole «lotta di classe» generazionale, per una più equa ridistribuzione del lavoro e della ricchezza in un contesto culturale individualista e predatorio. Riappropriandosi di quella fondamentale funzione educativa che più nessuno nel panorama laico è ormai in grado di esercitare.Il lavoro non si riporta al centro né con la retorica delle bandierine sui voucher o sull’articolo 18 né con le caricature sulle responsabilità e le colpe (in alcuni casi vere) dei sindacati, ma con la de-ideologizzazione del confronto e la riaffermazione del lavoro quale valore fondante delle nostre comunità e imprescindibile veicolo di realizzazione e dignità della persona. Mi sento molto lontano dalle idee di chi pensa che sia possibile «indennizzarne» la mancanza o la perdita del lavoro con una qualche forma di assegno.A noi spetta il compito di ascoltare, studiare, scegliere assieme ai lavoratori le priorità, accompagnarli e supportarli nella costruzione di proposte che dovranno fare i conti con le priorità di altri. Perché fare sindacato significa adoperarsi per il giusto bene collettivo, non nella lotta contro gli altri e fomentando sentimenti di odio inaccettabili in un sistema in cui lavoro e capitale rappresentano elementi indispensabili per il progresso sociale.Nulla di tutto ciò si intravede nei movimenti che fondano il proprio consenso sull’esasperazione del conflitto, sull’aggressività dei toni, sulla caricatura e l’annientamento del nemico. È una distanza culturale e di approccio, non tanto di contenuto, quella che non mi fa vedere niente di buono in quel tipo di propaganda. L’intermediazione che dovrebbe spaventarci non è quindi quella che il sindacato svolge tra lavoratori e impresa, ma piuttosto quella che parte della politica cerca di svolgere tra cittadini e corpi intermedi. Non è un caso che il modello di apparente democrazia diretta del M5S, per funzionare abbia proprio bisogno di non avere intermediari.Ogni forma di populismo è però sintomo e non causa dei problemi di cui il sindacato si deve occupare, attenzione dunque a quali orizzonti decidiamo di volgere lo sguardo.

di Paolo Cagol

Lavoro e sindacato entrano nelle agende politiche dei partiti, e questo non è necessariamente un male. Diverso è il modo in cui ciò avviene. Poco importa che i neo ideologi del lavoro non abbiano la benché minima idea di come si eserciti la democrazia rappresentativa nei luoghi di lavoro, non abbiano mai messo piede in una fabbrica o gestito vertenze aziendali il cui risultato dipende sempre da necessarie mediazioni tra diversi portatori di interessi o ancora che l’alternativa italiana ai sindacati non sarebbe la mitbestimmung tedesca ma l’abbandono di milioni di lavoratori a se stessi.

La proposta del partito antieuropeista per antonomasia va a braccetto con quanto da anni l’Europa chiede (e in molti casi ottiene) ai paesi membri: disintermediare il rapporto tra imprese e lavoratori. C’è chi guarda alla quarta rivoluzione industriale e chi invece vuole tornare alla prima, quando la giornata lavorativa durava 16 ore, si ripeteva per 6 giorni ogni settimana, 52 settimane l’anno anche per donne e bambini. Senza, ferie, malattia e tutela alcuna, in pessime condizioni ambientali e di sicurezza. Tutto questo «nonostante» il sindacato non esistesse ancora.

In questi anni gli accordi sindacali siglati nelle vertenze industriali del paese hanno salvato centinaia di migliaia di posti di lavoro. Lo smartworking, oggi propaganda di politicanti senza esperienza di quali siano le concrete questioni da affrontare nell’implementazione del «lavoro agile» nei luoghi di lavoro, è da tempo oggetto di accordi sindacali: General Motors, Vodafone, Barilla, ABB, Nestlè solo per fare alcuni nomi noti.

Aboliamo il sindacato! Con tutti i suoi limiti e contraddizioni, catalizzata dal crescente disagio sociale e con il potere mediatico della retorica populista, la proposta potrebbe addirittura piacere anche perché, come ogni campagna di marketing ideologico che si rispetti, abbina sapientemente mezze verità a pregiudizi e caricature ormai radicate nell’opinione pubblica e nell’immaginario collettivo.

Ma la vera questione per il sindacato non sono le proposte del M5S, ma il sindacato stesso. Come rispondere nei fatti alle accuse portate? Come dare contenuto e forma alla rabbia e alle vulnerabilità che minano quella coesione sociale su cui si radica ogni sentimento di collettività e solidarietà? Non certo con la retorica stantia e autoreferenziale sulla rilevanza storica del movimento operaio.

Occupandoci invece di riconquistare credibilità, valorizzare e comunicare competenze e risultati, riconoscere i limiti di un «brand» troppo legato a modelli di tutela categoriali e scarsamente universalistici. A cominciare dai giovani, per i quali la favola dei diritti acquisiti ha ormai assunto le forme e la sostanza di privilegi negati non più socialmente e moralmente accettabili.

La consapevolezza dell’indispensabile ruolo del sindacato come fattore costruttivo di ordine sociale e solidarietà, va ricostruita liberandoci da schemi autoreferenziali e liturgici che in molti casi ci hanno allontanato dalla realtà e dalle persone.

Sfide epocali quelle che ci attendono, possibili attraverso cambiamenti «radicali, rifondativi e rigenerativi» (Marco Bentivogli, segretario nazionale metalmeccanici Cisl). Necessari, aggiungo, per immaginare scenari e costruire risposte a quelle sfide: per la piena occupazione, per una nuova responsabile e consapevole «lotta di classe» generazionale, per una più equa ridistribuzione del lavoro e della ricchezza in un contesto culturale individualista e predatorio.

Riappropriandosi di quella fondamentale funzione educativa che più nessuno nel panorama laico è ormai in grado di esercitare.
Il lavoro non si riporta al centro né con la retorica delle bandierine sui voucher o sull’articolo 18 né con le caricature sulle responsabilità e le colpe (in alcuni casi vere) dei sindacati, ma con la de-ideologizzazione del confronto e la riaffermazione del lavoro quale valore fondante delle nostre comunità e imprescindibile veicolo di realizzazione e dignità della persona. Mi sento molto lontano dalle idee di chi pensa che sia possibile «indennizzarne» la mancanza o la perdita del lavoro con una qualche forma di assegno.

A noi spetta il compito di ascoltare, studiare, scegliere assieme ai lavoratori le priorità, accompagnarli e supportarli nella costruzione di proposte che dovranno fare i conti con le priorità di altri. Perché fare sindacato significa adoperarsi per il giusto bene collettivo, non nella lotta contro gli altri e fomentando sentimenti di odio inaccettabili in un sistema in cui lavoro e capitale rappresentano elementi indispensabili per il progresso sociale.

Nulla di tutto ciò si intravede nei movimenti che fondano il proprio consenso sull’esasperazione del conflitto, sull’aggressività dei toni, sulla caricatura e l’annientamento del nemico. È una distanza culturale e di approccio, non tanto di contenuto, quella che non mi fa vedere niente di buono in quel tipo di propaganda. L’intermediazione che dovrebbe spaventarci non è quindi quella che il sindacato svolge tra lavoratori e impresa, ma piuttosto quella che parte della politica cerca di svolgere tra cittadini e corpi intermedi. Non è un caso che il modello di apparente democrazia diretta del M5S, per funzionare abbia proprio bisogno di non avere intermediari.

Ogni forma di populismo è però sintomo e non causa dei problemi di cui il sindacato si deve occupare, attenzione dunque a quali orizzonti decidiamo di volgere lo sguardo.

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