Non è una svolta, ma l'Europa c'è

Non è una svolta, ma l'Europa c'è

di Pierangelo Giovanetti

Non sarà la svolta rivoluzionaria che risolve tutti i problemi dell'Europa, ma la firma congiunta di ieri a Roma di tutti e 27 gli stati membri della Ue sessant'anni dopo i trattati costitutivi, segna una ripartenza non così scontata del cammino europeo. Non solo perché i timori della vigilia, con Polonia e Grecia pronte a smarcarsi dal percorso unitario, facevano presagire il peggio. Ma soprattutto perché la dichiarazione di Roma 2017 ha ribadito con forza che l'Unione europea è indivisa e indivisibile, è il futuro comune, l'unica difesa sicura dei popoli europei in grado di portare benessere, crescita sostenibile, progresso economico e sociale. Una comunità che ha garantito sessant'anni di pace, libertà, democrazia fondata sui diritti umani, dando vita ad una grande potenza economica con livelli di welfare e protezione sociale che non hanno paragoni al mondo.

 

È bene che gli europei - gli italiani in primis - abbiano con chiarezza presente i risultati conseguiti dal 1957 ad oggi, in tempi in cui lo sport nazionale è quello di buttare tutto a mare, di sfasciare, di erigere muri e abbattere monete, di distruggere senza aver ben chiaro dove si va a parare. Riuniti in Campidoglio come i Padri fondatori, i leader dei 27 lo hanno ribadito in maniera univoca: solo uniti si è più forti e sicuri, e qualunque ambizione di svolgere un ruolo nel mondo presuppone l'unione, a cominciare da sicurezza e difesa integrata. Scossa da traumatiche rotture come la Brexit e l'addio della Gran Bretagna, schiacciata fra Trump e Putin e le loro strategie espansioniste e divisive ai danni del vecchio continente, minacciata dai venti populisti e xenofobi che soffiano tra le opinioni pubbliche impaurite, forse l'Europa inizia a reagire.

Il programma di riforma tracciato ieri nella Città eterna pone le basi, pur in maniera prudente e generica, per una rifondazione delle istituzioni comunitarie. Nella convinzione che restare uniti sia la strada migliore per perseguire gli interessi nazionali dei singoli stati membri e difendere i valori comuni, i ventisette capi di stato o di governo si sono impegnati a dar vita ad una difesa comune, assumendosi maggiori responsabilità come Ue e sostenendo un'industria della difesa più competitiva e integrata, rafforzando la sicurezza dei Paesi membri.

Un'Europa sicura è proprio l'obiettivo numero uno posto in calce alla dichiarazione di Roma, e per raggiungere questo occorre «la protezione comune delle frontiere esterne» e «una politica migratoria efficace, responsabile e sostenibile». Vedremo se si riuscirà ad andare oltre le 27 difese nazionali che costano complessivamente una spesa militare seconda al mondo dopo quella degli Stati Uniti d'America, ma divise e scordinate contano poco o nulla, e singolarmente non sono mai state usate negli ultimi decenni se non all'interno di missioni internazionali.

Dato che lavoro e crescita economica sono per milioni di europei una priorità assoluta, accentuata dalla crisi più grave del dopoguerra, la dichiarazione di Roma si è impegnata a dar corpo a ingenti investimenti e riforme strutturali, di cui il Piano Juncker dovrebbe essere solo l'inizio. Sparisce dall'Europa il concetto di rigore e inflessibilità, per tornare a parlare di crescita, di mercato unico connesso e in espansione, sostenibile e innovativo. Tutto questo presuppone l'euro come moneta unica stabile, dentro una convergenza sempre maggiore delle diverse economie ma anche delle politiche contro l'esclusione sociale e la povertà. Infine, l'impegno a dare vita ad un nuovo processo decisionale democratico, efficace e trasparente, «perché l'Unione sia grande sulle grandi questioni e piccola sulle piccole», nel rispetto della sussidiarietà e dei diversi livelli decisionali a cui verrà riconosciuto «sufficiente margine di manovra».

Vedremo se alle parole seguiranno i fatti, e se da Roma 2017 partirà la «nuova fase costituente dell'Unione» «ripensando e ridefinendo l'attuale architettura europea» come auspicato dal Presidente Sergio Mattarella, «dando il via alla revisione dei Trattati». Può essere il bicchiere mezzo vuoto, se si guarda a ciò che è mancato negli impegni presi ieri. Ma di questi tempi è già un importante traguardo arrivare alla firma di tutti e 27 i Paesi su un intento comune. Certo poteva essere più deciso l'avvio di un processo di maggiore piena integrazione a livello politico ed economico. Va riconosciuto, però, che oggi questo non è realizzabile. Semmai andava spinta con più forza (con il rischio però di seminare per strada la Polonia, la Grecia e forse qualche altro Paese dell'Est) l'idea di un'Europa a «più velocità» o a «cerchi concentrici», come ipotizzato dalla cancelliera Angela Merkel, e sostenuto anche dal presidente del Consiglio italiano Gentiloni, dal francese Holland e dallo spagnolo Rajoy.

Senza lasciar indietro nessuno, ma con la possibilità di aggiungersi in un secondo momento, probabilmente è il tempo di pensare ad un nucleo forte, una sorta di punta avanzata di Paesi (i sei Stati fondatori originari?), capaci di dar vita ad un'integrazione più stretta, dai risultati più concreti e dai benefici più tangibili. Una specie di apripista verso quel progetto politico degli Stati Uniti d'Europa, agognato da Altiero Spinelli e Ernesto Rossi a Ventotene e prefigurato dai Padri fondatori come la possibile meta futura, che al momento è improponibile, ma forse può essere pensato in nuce per un gruppo iniziale, più ristretto e integrato, dentro l'Unione europea allargata ai 27 stati membri.

Le prove elettorali di questo fatidico 2017 (Francia e Germania) e soprattutto del 2018 (l'Italia), diranno se tale speranza può tradursi in realtà. Se alle presidenziali di maggio prevalesse la Francia europeista di Macron, e a settembre il vento populista e xenofobo di Alternative für Deutschland venisse stoppato, il progetto potrebbe riprendere quota. Allora sì che si potrebbe pensare ad una difesa comune europea, comprensiva della potenza nucleare francese, ad un avvio di mutualizzazione del debito pubblico di pari passo al completamento dell'Unione bancaria, insieme ad una condivisione delle politiche fiscali e della ripartizione dei rifugiati.

Al momento non è immaginabile che questo diventi programma di azione per tutti e 27 gli Stati membri ma per un nucleo forte dei sei Paesi originari questo può essere praticabile. Diventerebbe la strada anche per provare a sburocratizzare l'eccessivo e invadente peso delle istituzioni europee, sforzandosi di colmare nello stesso tempo il deficit democratico che l'unione contabile di oggi evidenzia di fronte agli occhi di milioni di europei stanchi ed esasperati.

Decisivo in questo risulterà l'Italia, e le scelte che faranno gli italiani alle politiche del 2018. Se i populismi euro-ostili e sovranisti avranno il sopravvento, ogni sogno di Stati Uniti d'Europa sarà destinato a svanire, forse per sempre.

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