I voucher sono ok se usati bene

I voucher sono ok se usati bene

di Paolo Cagol

È un paese avanzato quello in cui un ragazzo fa il promoter a chiamata per 5 euro l’ora, meno del corrispettivo di un voucher, con patto di non concorrenza biennale, penali per inadempienze, senza garanzia alcuna di ore minime di lavoro ma con molti vincoli e responsabilità per il lavoratore? O quello in cui la busta paga di un manutentore pugliese che lavora stabilmente in Trentino è costituita per oltre il 50% da indennità di trasferta, quello in cui l’impiegata part-time chiude giornata in nero e dopo quattro anni di apprendistato viene lasciata a casa dal titolare e riassunta nell’azienda del cugino, ancora come apprendista ma questa volta operaio, ovviamente continuando ad occuparsi di contabilità in ufficio?

E ancora, è un paese avanzato quello in cui l’azienda artigiana fa lavorare il sabato in nero gli operai in cassa integrazione mentre un’altra, che di ammortizzatori sociali non vuol sentir parlare, li lascia a casa senza retribuzione quando non c’è lavoro?

Queste cose purtroppo succedono, anche nel nostro Trentino. Non è un bene, né per il lavoratore che le subisce (ma che di rado è disposto a denunciare…) né per gli imprenditori onesti per i quali tali fenomeni costituiscono concorrenza sleale. E non è un bene che di queste cose non si parli, non ci si indigni e non si agisca di conseguenza. Se la soluzione però fosse quella prospettata dalla Cgil per i voucher, dovremmo cancellare non solo questi ma anche contratti a chiamata, part time, di apprendistato, ammortizzatori sociali e chissà cos’altro ancora.

Di voucher non si è cominciato a parlare in questi giorni come sostiene Ianeselli, in Trentino la Cisl se ne occupa da tempi non sospetti con la campagna «SOS voucher: per un buon uso e contro l’abuso» e in Parlamento si discute da tempo del problema. A luglio dello scorso anno la Commissione Lavoro aveva già approvato un parere che impegnava il Parlamento ad una revisione complessiva dell’istituto, ritenendo insufficienti i correttivi posti in essere.

Certo è un fatto che l’aver connotato la campagna referendaria in chiave politica «anti Jobs Act» (e in definitiva anti Governo), ha catalizzato l’attenzione di un’opinione pubblica e dei tanti media poco interessati al merito. Che poi questo sia motivo di vanto è quantomeno discutibile. Affronta invece la questione in modo puntuale e approfondito l’editoriale del direttore Giovanetti, cogliendo appieno la sostanza e non la patina dei problemi connessi al lavoro accessorio.

Paradossale che il caso sia scoppiato quando il Jobs Act ha cominciato a mettere dei paletti ad un istituto selvaggiamente deregolato dai governi Monti e Letta, con buona pace e sostegno degli attuali detrattori della sinistra politica e sindacale che oggi faticano a riconoscere che dal 2015 i voucher sono stati vietati negli appalti, rigidamente tracciati e che il loro tasso di crescita, nel 2016, è sceso dal 70% al di sotto del 24%.

La «proposta scritta» di cui parla Ianeselli c’è e si trova in Parlamento: le Proposte di Legge N.1681 Vitelli; N.584 Palmizio (2013); N.3601 Damiano (2016), la memoria del segretario Cisl Petteni depositata in audizione in Commissione Lavoro il 15 maggio 2016 e, nell’ottica delle buone pratiche europee che lo stesso Ianeselli cita, il DL N.1535, prima firma Santini (ex confederale Cisl) che già nel 2014 denunciava i rischi connessi alla deregulation dei buoni lavoro proponendo dei «voucher universali» sulla scia dell’ottima esperienza francese dei Cesu declaratifs.

È questo il modo in cui si affrontano i problemi in un paese avanzato (e civile), con visione e progettualità e non con approcci demagogici e oltranzisti, buoni per talk show, campagne mediatiche e gazebo ma poco utili alle persone che di quei problemi vivono le conseguenze.
Le parole hanno un peso, non è responsabile chiedere di cancellare una legge nella speranza che venga modificata. Per il legislatore abrogare non significa riformare così come per il sindacato licenziare non significa contestare il lavoratore inadempiente. Chiediamo coerenza e misura nelle aziende e dovremmo essere i primi a farne uso. Se il referendum passasse creerebbe una grave lacuna normativa e a pagarne le conseguenze non sarebbero certo i committenti disonesti.

Quanto all’attacco contro la Fim del Trentino, rea di non aver firmato un accordo negoziale per contributi pubblici concessi a Dana, fatico onestamente a comprendere il nesso logico tra questo episodio, gli accordi Fiat del 2010 e l’editoriale del direttore in questione.

Potrei far notare che non è la Fim il sindacato di cui si dovrebbe preoccupare la Cgil nell’azienda citata, ma non ritengo questa la sede per tali discussioni, né per affrontare il tema dei criteri di concessione di contributi provinciali alle imprese. Mi permetto solo di far notare che non è stata solo la Fim a non firmare quell’accordo (non lo ha ritenuto accettabile neppure la Uilm del Trentino) e che non sono le confederazioni ad aver maturato esperienza sul campo con questo tipo di accordi, ad oggi siglati in gran parte nel settore metalmeccanico.
Su questo punto rinnovo quindi la piena disponibilità a un confronto serio e responsabile, non necessariamente a mezzo stampa, con il segretario Ianeselli e gli omologhi Alotti e Pomini, con cui ovviamente tale confronto è già avvenuto «in casa».

comments powered by Disqus