Ecco perché i voucher vanno regolati

Ecco perché i voucher vanno regolati

di Franco Ianeselli

In un Paese avanzato non è normale servire ai tavoli di un ristorante per un’intera stagione potendo perdere il posto di ora in ora e con zero protezione sociale, senza diritto ad usufruire della disoccupazione a fine contratto. O ancora lavorare in appalto per salari da fame, senza neppure avere la certezza di prenderla, alla fine, quella busta paga.

Direttore Giovanetti, impegnarsi per i diritti di questi lavoratori e queste lavoratrici non è né dannoso né ideologico. Se di questa zona d’ombra, di questi lavoratori di serie B si è cominciato a parlare in questi mesi è anche per merito della Cgil. Se, come noi auspichiamo, forse già nei prossimi giorni il Consiglio dei ministri varerà un provvedimento che mette un argine all’abuso dei voucher è anche per merito nostro. Fino al momento in cui la Corte costituzionale non ha dato il via libera ai referendum sul lavoro, la questione era assente dal dibattito politico italiano e non mi risulta che in Parlamento schiere di deputati e senatori di ogni parte si stessero stracciando le vesti per riformare i buoni lavoro o per migliorare le condizioni di chi lavora in appalto.

Non ammettere che i voucher sono ormai, e non da ieri, uno strumento fuori controllo è non vedere la realtà. Tanto quanto come non vedere che il lavoro occasionale esiste e va regolato. Non a caso la Cgil non si è limitata a proporne l’abolizione attraverso il referendum, ma nel suo disegno di legge di iniziativa popolare, la Carta dei diritti universali del lavoro, ne propone una regolamentazione, riconducendoli al lavoro domestico, con un limite di ore e un tetto massimo di retribuzione; limitandoli solo a certe categorie come studenti, disoccupati e pensionati.

La Cgil non è referendaria per vocazione, lo è diventata per necessità. Se il governo riformerà i buoni lavoro nella direzione anticipata dal ministro Poletti, riconducendoli al lavoro familiare così come già avviene in altri Paesi europei, ad esempio Francia e Belgio, saremo i primi a prenderne atto con soddisfazione. Ad oggi, però, non abbiamo visto nessuna proposta scritta.

E comunque la partita non sarà chiusa, perché i referendum proposti sono due e hanno pari dignità e importanza. Oltre ai voucher c’è la questione della piena responsabilità solidale negli appalti, che si vorrebbe forse far passare sotto silenzio, ma che coinvolge moltissimi lavoratori e lavoratrici, uno degli anelli più deboli e fragili del nostro mercato del lavoro: sono uomini e donne che lavorano con retribuzioni bassissime, con mansioni umili e in condizioni disagiate e con il futuro appeso ad un cambio appalto. Non inseguiamo il passato. E’ il nostro presente.
Sullo sfondo c’è l’interrogativo sul modello di sviluppo a cui vogliamo tendere. Non come Cgil. Come Paese. Se puntiamo ad una “via alta”, dove la competitività dell’intero sistema si basa sulla qualità di ciò che si offre e dunque anche del lavoro; o se puntiamo ad una “via bassa”, dove la competizione si fa solo sul costo del lavoro comprimendo tutele e con maestranze sottopagate.

Di questa seconda strada sono conseguenza, almeno in parte, quei sentimenti di rancore e delusione, sempre più forti nella società. Ne siamo consapevoli e sappiamo anche di avere delle responsabilità, come ne ha la classe politica e come ne hanno anche i mezzi di comunicazione nella misura in cui tutti, insieme, siamo di fronte ad un bivio: farci carico di queste frustrazioni cercando di costruire risposte in un progetto riformatore, o limitarci ad usarle, ad agitarle facendo mera demagogia. Definirci, però, come un sindacato che “alimenta il populismo rancoroso” tradisce una scarsa conoscenza del nostro impegno, dimostra un pregiudizio che non lascia spazio ad una lettura obiettiva della realtà. A cominciare da quella che più ci è vicina, la nostra dimensione locale.

Raccontare una Cgil che si limita solo ad agitare bandiere del passato, che preferisce le rivendicazioni vuote ai fatti, non dà atto della storia recente di questa provincia in tema di politiche per il lavoro. Se oggi il Trentino ha un sistema di protezione sociale più ampio ed efficace, se qui gli ammortizzatori sociali sono più inclusivi, è certamente grazie alla nostra Autonomia, ma anche per l’impegno e la lungimiranza con cui istituzioni e parti sociali, sempre con il protagonismo unitario di Cgil Cisl e Uil, hanno capitalizzato queste risorse. Le misure di sostegno al reddito per i disoccupati più estese, le politiche attive per sostenere i lavoratori in transizione, la previdenza integrativa regionale, i piani straordinari per fronteggiare emergenze imposte dalla crisi non sono narrazione, sono fatti. Non abbiamo abdicato al nostro ruolo di proposta e contrattazione per stare dietro ad una battaglia ideologica. Il nostro impegno è tutti i giorni, nei tavoli di confronto istituzionali e nei posti di lavoro.

Non si può parlare di contrattazione di secondo livello senza ricordare che questo sindacato si è speso perché l’ultima finanziaria Pat legasse gli incentivi alle imprese a chi fa contrattazione integrativa; senza ricordare che la contrattazione aziendale chiama in causa anche il coinvolgimento e la partecipazione dei lavoratori, ma che su questo punto non è il sindacato fermo su vecchie logiche, quanto invece gli imprenditori locali sordi. E citare l’accordo separato di Pomigliano senza poi guardare in casa nostra, dove Fim del Trentino non firma gli accordi negoziali in Dana, vuol dire avere quantomeno una visione parziale di quel che avviene nel nostro sistema di relazioni sindacali, al di là di quanto si vuole poi rappresentare.

Non siamo esenti da colpe così come siamo consapevoli che il sindacato del ventunesimo secolo non può muoversi sulle stesse logiche di cinquant’anni fa. Serve un modo nuovo per rappresentare chi lavora, non limitandosi a rispecchiarne il disagio ma interpretando bisogni e aspirazioni con nuove forme di tutela. Vale per la Cgil e vale per tutti.

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