Noi e gli altri: la lezione di Todorov

Noi e gli altri: la lezione di Todorov

di Duccio Canestrini

Noi e gli altri. L’argomento non è mai passato di moda, e mai passerà. Anche se Tzvetan Todorov, filosofo francese di origine bulgara, aureolato di una chioma di riccioli bianchi, lui, qualche giorno fa «è passato via» come dicono gli inglesi. Vedi le periferie di Parigi, dove la polizia tenta di tenere a bada, spesso con inutile violenza, il disagio dei molti francesi. O le altrettanto inutili e anacronistiche interdizioni del governo Trump contro presunti barbari immigrati.

Proprio Todorov, subito dopo la strage di Nizza, nel luglio del 2016, disse: «Dobbiamo evitare di diventare barbari anche noi, come quelli che ci odiano. Il multiculturalismo è lo stato naturale di tutte le culture.
La xenofobia, le pulsioni basate sull’identità tradizionale non sono destinate a durare. Una cultura che non cambia è una cultura morta».
«Noi e gli altri» (Einaudi 1991) è il titolo di un bel libro, per molti aspetti illuminante, di Todorov. Pellerossa e visi pallidi. Terroni e polentoni. Montecchi e Capuleti.

Noi e gli altri anche a casa nostra, diversi, visibilissimi, direi quasi sovraesposti, date le circostanze: migranti arrivati in Trentino dopo odissee narrabili e inenarrabili, in ogni caso poco narrate. E scarsamente indagate. Al punto che le persone comuni, i viaggiatori in partenza alla stazione, le signore con i bimbi nel passeggino, si chiedono ma chi sono, che cosa vogliono, perché sono qui? Sono perdigiorno, migranti per diletto, profughi per costrizione, avanguardie del turismo futuro? Cercano lavoro, Cuccagna o protezione?

Ecco forse queste domande andrebbero rivolte proprio a loro. Con coraggio e semplicità, e certo con il rischio di rimanere sbalorditi dalle tribolazioni, dalle umiliazioni, dalle sofferenze di persone che in molti casi hanno perso tutto, salvo la speranza di ricominciare la vita da capo. E ancora noi che, con questi altri, ci arroghiamo il diritto di dire tu sì tu no, puoi fermarti qui, oppure devi andartene. O, anche peggio, sì ti accogliamo ma a parte che tu ci pulisca le scarpe, le case, le strade. Dopo essere sopravvissuti a guerre, violenze, addii strazianti, campi di concentramento, naufragi che nemmeno possiamo immaginare.
Come dire che gli altri, ai quali generosamente accordiamo ospitalità, in realtà ci devono qualcosa per il fatto di essere malcapitati e disperati in fuga: ci devono «lavori socialmente utili».

Altrimenti un rifugiato, un diverso, uno straniero, un migrante sarebbe socialmente inutile. Non insisto, ma va da sé che il ragionamento non fila, la nostra generosità fa acqua, perché la logica di questa mentalità è un po’ perversa.
Todorov, che conobbe «il male» sotto Stalin, l’aveva ben capito, e con gli anni scrisse altre opere come «L’uomo spaesato. I percorsi dell’appartenenza», «Il nuovo disordine mondiale», «La paura dei barbari. Oltre lo scontro delle civiltà».

Intendiamoci, l’incontro non è mai stato facile. L’apertura nei confronti di culture altre, un tempo lontane e ora improvvisamente vicinissime, ha sempre comportato dilemmi, pregiudizi, rischi di contaminazione, di confronto, di competizione. Ma questa, fatta di malintesi, è precisamente la storia dell’umanità. Per contro, tuttavia, la chiusura e i muri non hanno mai funzionato.

Ed è quello che una sorprendente quantità di americani - liberi cittadini, giornali, catene di ristoranti, grandi aziende - oggi sta dichiarando pubblicamente, forte dei risultati della mescolanza etnica e del diritto di manifestare dissenso.
La nostra specie così come la nostra identità sono fatte di relazioni con altri da noi. Perché il cambiamento culturale, quello auspicato da Todorov, non potrebbe mai avvenire se ci  limitassimo a guardarci allo specchio.

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