Processi mediatici e giustizia ingiusta

Processi mediatici e giustizia ingiusta

di Pierangelo Giovanetti

Ieri a Trento, e nelle sedi di Corte d’Appello di tutta Italia, è stato inaugurato l’anno giudiziario 2017. L’appuntamento è sempre occasione per un bilancio sull’attività della giustizia e sul funzionamento dell’intero sistema giudiziario, fondamentale nella vita dell’individuo e della società perché ha a che fare con la tutela dei diritti personali e collettivi, la certezza della legge e la garanzia per la libertà individuale, pilastri di uno stato di diritto.

Tra le questioni di maggior rilievo sollevate, soprattutto a livello nazionale nella cerimonia di venerdì in Cassazione, vi è il danno grave inferto alla giustizia, e al senso di giustizia percepito dai cittadini, causato da inchieste che hanno una forte eco mediatica, accresciuta anche dalla fuga più o meno volontaria di notizie, ma dagli esiti processuali pressoché nulli, che si concludono in una bolla di sapone e conseguente archiviazione degli atti.

Emblematico il caso recente dell’inchiesta sul petrolio in Basilicata che ha lambito l’ex ministra Federica Guidi, nemmeno indagata, al centro di intercettazioni di nessuna rilevanza penale, date in pasto ai giornali un mese prima del referendum sulle trivelle con un evidente uso politico. Per settimane intercettazioni riguardanti la sua vita privata hanno continuato a uscire da Palazzo di Giustizia finendo sui giornali, portando alle dimissioni della ministra, per concludersi con l’archiviazione dei principali indagati, tra cui il compagno della Guidi.

Fatti come questo hanno portato a dire al presidente della Cassazione Canzio che bisogna porre fine alle «fughe di notizie» e «ai processi mediatici» che creano distorsioni e un corto circuito tra l’inchiesta e il processo penale vero e proprio, accentuato dalla «autoreferenzialità» di taluni pubblici ministeri.

A questo si sono aggiunte le parole del procuratore della Cassazione Pasquale Ciccolo, che ha puntato il dito contro «il fenomeno della fuga di notizie, grave perché rischia di ledere il principio costituzionale di non colpevolezza».

In tale degenerazione «giustizialista» che finisce appunto per condannare l’indagato di fronte all’opinione pubblica prima ancora che si accerti una sua presunta responsabilità, o addirittura l’esistenza del reato, i giornali e i mass media in genere non sono immuni da colpe. Purtroppo s’innesta un circolo perverso per cui gli avvisi di garanzia o le intercettazioni, fatte giungere ad un giornale, solitamente «Il Fatto quotidiano» ma non solo, diventano di dominio pubblico e acquistano indebita rilevanza politica, tanto che non è più possibile ignorarle, ingigantendo il loro risalto, e l’effetto perverso che esercitano, arrivando a distruggere la persona sul piano umano, prima ancora che politico.

La vicenda che in queste settimane e mesi sta interessando la sindaca di Roma Virginia Raggi, esponente di spicco dei CinqueStelle, è interessante perché riguarda un politico di primo piano di un movimento che esistenzialmente ha fatto del giustizialismo colpevolista e dell’attacco personale in nome di una presunta moralità la sua arma politica e la cifra del suo successo elettorale, e che di colpo diventa garantista e attendista perché sotto inchiesta per abuso d’ufficio e falso in atto pubblico è finito il proprio personaggio-simbolo.

Ora i CinqueStelle minimizzano, invocano garanzie, parlano di presunzione di innocenza fino al terzo grado di giudizio, tutte cose sacrosante ma che non possono essere implorate per sé e negate per gli altri, con un doppiopesismo ipocrita e stomachevole. C’è da augurarsi che i fatti di Roma aprano gli occhi, innanzitutto ai grillini stessi, sulle degenerazioni a cui possono andare incontro i processi sommari di piazza, i tribunali del popolo e i comitati di salute pubblica che Grillo e i suoi fan invocano di continuo, iniettando ulteriore veleno distruttivo in una società già intrisa di odio e di astio verso l’altro.

La questione posta dal presidente della Cassazione Canzio è centrale per la credibilità della giustizia stessa. L’uso disinvolto della divulgazione di notizie sulle inchieste, e di particolari insignificanti e privi di rilevanza di reato che emergono dalle intercettazioni, crea infatti una discrepanza pericolosa fra l’inchiesta stessa e la risultanza del processo, tra la convinzione (sbagliata) che si ingenera nell’opinione pubblica a seguito di quanto fatto filtrare, e il verdetto successivo alla verifica dei fatti che si conclude ovviamente in un nulla di fatto se le indagini sono costruite più per la visibilità sui giornali che per l’effettiva sostanza di contenuti.

Proprio per evitare questo in alcune procure, meritoriamente, è stato stabilito di limitare le trascrizioni delle intercettazioni nelle richieste di custodia cautelare, così da escludere persone, fatti e frasi estranee alle ipotesi di reato.

Per la stessa ragione il legislatore cerca da tempo, finora invano, di normare la questione della pubblicazione delle intercettazioni sui giornali, così da evitare abusi (ormai frequentissimi) a danno non solo della libertà e dell’immagine personale, ma anche della civiltà giuridica di uno stato di diritto, in cui la condanna più pesante, quella che distrugge la propria reputazione, avviene prima dell’accertamento dei fatti e di qualunque sentenza, tanto più grave se questa alla fine è assolutoria.

In realtà ci sarebbe già il codice penale a stabilire che le indagini sono segrete. Di fatto tale segretezza è sistematicamente violata, talvolta anche da pubblici ministeri, per «spiccata autoreferenzialità», come ha affermato il procuratore Canzio, senza che venga in alcun modo sanzionata.

Il presidente della Cassazione arriva addirittura a chiedere di «aprire significative finestre di controllo giurisdizionale nelle indagini». Basterebbe sanzionare gli eccessi, la sovraesposizione mediatica di alcuni pubblici ministeri e di alcune procure, che evolve spesso in candidature politiche del magistrato il quale mette a frutto «elettorale» il proprio protagonismo mediatico e l’aspirazione a redimere il mondo più che a costruire indagini solide e argomentate. Un eccesso disinvolto di passaggio fra ruoli nella magistratura e impegno politico, che andrebbe una volta per tutte limitato, impedendo la candidatura dei magistrati e dei pubblici ministeri nel distretto in cui hanno operato portando la toga sulle spalle, o addirittura esigendo che l’assunzione di una carica politica presupponga prima la fuoriuscita dai ranghi della magistratura, anche per evitare il rientro successivo in tribunale dopo la militanza politica di parte.

Insieme ai politici e ai giornalisti, anche i magistrati da tempo stanno subendo una pericolosa crisi di credibilità, che intacca la figura quasi di «vestale della giustizia» assegnata loro dalla Costituzione, affidando il compito di applicare la legge. L’eccessiva politicizzazione assunta da una parte della magistratura (il Consiglio superiore, lacerato in correnti politiche ne è uno degli esempi peggiori), insieme alla totale aleatorietà delle sentenze che vengono capovolte e ricapovolte con una disinvoltura impressionante e incomprensibile al comune cittadino, non aiutano a rafforzare il senso della giustizia nel Paese e a trasmettere l’idea di imparzialità della magistratura, che è basilare nella costruzione della fiducia.

Ben vengano quindi i richiami usciti dall’inaugurazione dell’anno giudiziario, purché non restino lettera morta. Altrimenti «la frattura fra gli esiti dell’attività giudiziaria e le aspettative di giustizia dei cittadini» menzionata dal presidente della Cassazione continuerà ad accentuarsi, alimentando ulteriormente la sfiducia generale e la rassegnazione che già gravano sul Paese.

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