I lati oscuri (e le cantonate) di Dario Fo

I lati oscuri (e le cantonate) di Dario Fo

di Pierangelo Giovanetti

Una piazza Duomo gremita ha dato ieri l'addio a Milano a Dario Fo, artista geniale, irriverente fustigatore del potere, istrionico mattatore goliardico e burlesco che fece innamorare anche i giurati di Stoccolma tanto da assegnargli il Nobel, oltre al pubblico dei teatri italiani di cui in lungo e in largo per decenni calcò la scena.

Per un «giullare di popolo» come lui amava definirsi - specificando «di popolo» perché in effetti i giullari sono sempre stati «di corte» - , bastian contrario sopra le righe, deve essere stato un bello sberleffo assistere da Lassù alla melassa beatificatoria che ha inondato tutti i giornali e le Tv, in un conformismo che sapeva tanto di paradosso, in morte di uno che diceva di odiare il conformismo, anche se spesso ne amava lisciargli il pelo. In realtà, la grandezza fuori del comune di Dario Fo, esaltata in tutte le salse in queste ore, andrebbe letta nel complesso della controversa figura dell'inventore del Gramelot, che nella vita mieté enormi (in buona parte meritati) successi, ma si distinse anche per faziosità epocali, violenza di linguaggio, estremismo unidirezionale, e tanti tanti errori che la storia dimostrò essere tali.

Questo va detto per non fare di Dario Fo un santino devozionale, che sa tanto di caricatura per chi con «Mistero Buffo» ha dileggiato in maniera virulenta santi e devoti, trinciando nel tritacarne pure papi, preti e poveri cristiani in una purè per la risata generale. Perché le cantonate di Dario Fo sono state tante - e poche volte riconosciute, nonostante le sentenze di tribunale e lo scorrere del tempo -, e l'uso politico dei suoi errori lo hanno cavalcato in molti, con messi abbondanti di consensi, che in parte spiegano il profluvio di antipatizzanti che nella sua lunga vita si era guadagnato.

Cominciò da camerata della repubblica di Salò volontario con gli ultimi mussoliniani il futuro Premio Nobel, giurando sul fascismo e sull'antisemitismo, salvo andare in soccorso del vincitore all'indomani della liberazione. Quando nel dopoguerra, qualcuno cominciò a tirar fuori le foto in camicia nera, ricordando le sue dichiarazioni di non tradire mai il duce e combattere per sempre i rossi, Dario Fo se ne adontò alquanto, negò, e da icona incorruttibile della sinistra extraparlamentare quale era nel frattempo diventato portò in tribunale chi sosteneva il contrario. Di fatto, come si sa, fu condannato dai tribunali della Repubblica sulla base delle testimonianze dei capi partigiani, e nella sentenza si legge che «è legittimo per Dario Fo non solo la definizione di repubblichino, ma anche quella di rastrellatore».

Qualche anno dopo, nel pieno della popolarità per essere stato estromesso da Bernabei dalla Rai Tv per uno sketch pesantuccio e non gradito, Dario Fo si distinse in un'altra battaglia politica, sicuramente di successo visto il risultato: il linciaggio del commissario Luigi Calabresi. La sua firma campeggia - per altro in ampia e buona compagnia - sul famoso manifesto pubblicato dall'Espresso il 13 giugno 1971, che sancì la condanna a morte del commissario della questura di MIlano. Rileggendo oggi le parole di odio e di violenza vergate in quell'appello pubblico - firmato per altro dalla «mejo intellighenzia», o sedicente tale, dell'epoca - vengono i brividi. Si capisce poi come mai Leonardo Marino, condannato insieme a Sofri per il killeraggio (non metaforico, ma con tre revolverate sparate alla testa e alla schiena) scrisse nella sua autobiografia: «Il nostro compito era di uccidere Calabresi per vendicare la morte del compagno anarchico Pinelli che tutti gli intellettuali a cominciare da Dario Fo, definivano vittima di Calabresi, gettato dalla finestra di Calabresi». In realtà, come si sa (o si fa finta di non sapere), l'inchiesta del magistrato Gerardo D'Ambrosio, non agevolmente accreditabile di simpatie di destra, scagionò completamente Luigi Calabresi, mettendo nero su bianco che il commissario di Milano non praticava karatè, né era l'assassino di Pinelli.

Dario Fo si era trovato - come tante altre volte - dalla parte del torto, ma non si dette ragione che la realtà e i fatti gli davano contro, e quindi continuò imperterrito a rappresentare nei teatri di tutta Italia una menzogna comprovata dando nome allo «spettacolo» «Morte accidentale di un anarchico». Dario Fo non mandò giù neanche la confessione di Marino e, pur venendo poi comprovata questa da quindici sentenze, tre Corti d'Appello (Milano, Brescia, Venezia), dodici anni di infiniti dibattiti processuali, bollò il sodale di Adriano Sobri e Pietrostefani un «coglioncione», insultandolo per bene in un testo sarcastico dal titolo «Marino libero! Marino è innocente!», inanellando 120 presunte bugie del pentito, che invece i tribunali chiamati a giudicare sentenziarono verità comprovate.

Nel 1974 Dario Fo, già in vetta alla celebrità, fondò «Soccorso rosso», gruppo sostenitore di detenuti sedicenti politici e comuni, che si prodigò per aiutare più o meno velatamente personaggi in odore di terrorismo, compresi i tre autori del rogo di Primavalle. Come forse qualcuno rammenterà in quel rogo morirono nella loro casa uccisi dai terroristi di Potere Operaio Stefano e Virgilio Mattei, che scontavano l'unica colpa di essere figli del segretario di una sezione del Movimento sociale. La difesa di Dario Fo verso gli autori dell'omicidio fu totale, con interventi pubblici, prese di posizione, denaro, mentre le aule giudiziarie dimostravano anche in questo caso il contrario della presunta verità proclamata dai suoi infiniti pulpiti, tra gli applausi scroscianti del pubblico.

La sua difesa degli assassini di vario genere, scatenò l'ira anche delle vittime del terrorismo basco. Dario Fo, infatti, si scagliò duramente contro le condanne di alcuni membri dell'Eta, dimenticando che il terrorismo basco - tra cui i protetti dalle sue filippiche - aveva fatto in Spagna 817 morti, fra i quali 26 bambini. Del resto già anni prima, nel 1972, aveva inscenato in teatro uno spettacolo che a quei tempi andava molto di moda, «Fedayn», in cui si esaltava Al Fatah, l'organizzazione paramilitare palestinese, quale combattente della resistenza antisionista «nemico numero uno dell'imperialismo, del sionismo e della reazione araba». La non- simpatia per il mondo ebraico, del resto, fu una costante non solo dai tempi della Repubblica di Salò ma anche fino agli ultimi giorni di vita quando, in un'intervista in occasione dei suoi 90 anni, sostenne beatamente che gli ebrei si avvalgono della «loro brutalità contro chi segue altre religioni».

Fa un po' specie che nei giorni del funerale di chi si accreditò sempre come «voce fuori dal coro», il coro canti unanime lo stesso spartito, senza distinguere la grandezza artistica di un genio culturale patrimonio di tutti gli italiani dalla sua militanza politica, settaria, faziosa, estremista, che la storia ha dimostrato essere per lo più dalla parte del torto. Come quella volta che accreditò, tra le risate generali di mezzo mondo per l'imbecillità della tesi sostenuta, che gli attacchi alle torri gemelle erano lo strumento di un grande complotto cospirazionista a sfondo petrolifero, e quindi le 2974 persone morte vennero uccise «dalla legittima violenza della fame e dello sfruttamento». Misteri buffi della vita.

p.giovanetti@ladige.it
Twitter: @direttoreladige

comments powered by Disqus