Corte e pensioni, sentenza ingiusta

Corte e pensioni, sentenza ingiusta

di Pierangelo Giovanetti

Ammonterà a 16 miliardi di euro, o forse addirittura a 19 miliardi, il costo della sentenza N. 70 della Corte Costituzionale entrata in vigore giovedì scorso, la quale ha respinto il blocco della rivalutazione per le pensioni più alte introdotto dal governo Monti per fronteggiare l'emergenza finanziaria dell'Italia, ed evitarne la bancarotta. In sostanza la Corte ha ritenuto «irragionevolmente sacrificato» il taglio alle pensioni superiori ai 1.400 euro mensili, pur pronunciando tale verdetto dopo una divisione profonda di valutazioni al suo interno e senza esprimere una maggioranza di voti, ma giocando sul fatto che il presidente, in caso di parità, vale doppio.


Le conseguenze di tale sentenza avranno un effetto paradossale: per rivalutare le pensioni più alte si dovrà probabilmente procedere ad una manovra finanziaria «lacrime e sangue» che colpirà tutti, specie i ceti più deboli, sia che aumenti il prezzo della benzina, sia che s'innalzi l'Iva sui beni di prima necessità, sia che si decida di tagliare servizi sanitari o sociali per ripagare il deficit creato dalla Corte. In sostanza una sorta di Robin Hood alla rovescia, prelevando dai più poveri per dare ai più benestanti (tra cui peraltro gli stessi membri della Consulta beneficiari di pensioni che si vedranno rivalutate, e anche di parecchio). Proprio il fatto che i giudici costituzionali si siano spaccati vuol dire che potevano esserci ampi margini per un diverso bilanciamento dei valori in gioco. Anche perché la sentenza N. 70 ribalta completamente la linea giurisprudenziale tenuta dalla Corte soltanto tre mesi fa nel caso della Robin tax, escludendo espressamente effetti retroattivi, cioè la creazione di un grave buco di bilancio. 


Un buco che avrebbe costretto il governo ad emanare un'altra tassa per coprire il deficit. Se poi si considera che in questa sentenza non è stato minimamente contemplato il rispetto costituzionale dell'articolo 81 sul pareggio di bilancio che impedisce di scaricare sulle giovani generazioni debiti fatti dalle precedenti (come in Italia purtroppo a lungo è avvenuto), oltre al fatto che tale decisione smentisce un'altra precedente della stessa Corte (quella del 2013 sulla legittimità del blocco degli automatismi per il personale non contrattualizzato della Pubblica amministrazione), i dubbi e le perplessità su quanto disposto dalla Consulta si moltiplicano al punto di poter dire che è una sentenza, oltre che giuridicamente controversa, socialmente ingiusta e per certi versi immorale negli effetti.


Pur considerando che una parte delle pensioni interessate dalla rivalutazione non si può certo annoverare fra quelle «d'oro» (pensiamo a chi prende 1.500, 2.000 o 2.500 euro al mese), e che quindi un rimborso almeno parziale può essere plausibile, va tenuto conto del contesto sociale in cui ciò avviene. La maggior parte di quelle pensioni sono state maturate in regime retributivo e non contributivo (cioè non si pagano con i soldi e i contributi versati, ma gravando in parte sulla collettività). Inoltre la maggior parte di quelle pensioni sono state maturate in età assai più giovane di quelle attuali. Quindi, sono già di per sé privilegiate rispetto a chi va in pensione ora, e soprattutto rispetto a chi andrà (speriamo ci sia ancora la pensione) fra qualche anno.
Che qualche sacrificio sia chiesto proprio ai percettori di tali pensioni, che in molti casi hanno visto un effetto moltiplicatore dei loro valori nell'ultimo mese di lavoro grazie a promozioni lampo o scatti improvvisi di carriera, probabilmente è più che giusto: è doveroso.


È quasi un obbligo di solidarietà intergenerazionale che la Corte, immotivatamente, non ha considerato. Ma che sicuramente ora spetta alla politica considerare. E provvedere auspicabilmente con un provvedimento che non scarichi il costo di quei 19 miliardi di euro sulle spalle dei ceti più deboli e delle generazioni più giovani, ma faccia ricadere la ridistribuzione sui percettori di pensioni più alte. In un Paese che non ha più mobilità sociale, come il prossimo Festival dell'Economia di Trento andrà a discutere, e in cui le diseguaglianze intergenerazionali sono diventate spaventose tanto da costringere i giovani a fuggire perché l'Italia è diventata una nazione pensata solo per i già garantiti (quindi non i giovani), la risposta del governo alla sentenza della Corte diventerà una cartina di tornasole di che Paese vogliamo. Se farà pagare il costo di questa sentenza a tutti, vuol dire che è un Paese irrimediabilmente perso, senza più futuro. Se ridistribuirà i costi della sentenza sulle pensioni più abbienti, più fortunate, quelle maturate con meno anni di contributi e meno versamenti, probabilmente porterà a termine un'operazione di giustizia, di equità sociale, di solidarietà intergenerazionale.


Che i sindacati non abbiano capito questo, e che abbiano applaudito alla sentenza della Corte unendosi alle grida di giubilo di Matteo Salvini della Lega, la dice lunga di quanto al sindacato non interessino più i deboli e i meno garantiti, e quanti lavorano, ma sia ormai soltanto la lobby chi chi percepisce già una rendita. Se poi teniamo presente che in Italia oggi il reddito degli ultra sessantacinquenni è in media superiore a quello dei quarantenni che lavorano e hanno famiglia, appare ancora più fuori dalla realtà la sentenza della Corte, e sicuramente poco tutelatrice dei diritti sociali dei cittadini più giovani, e più deboli. Ora, mentre i diritti civili e politici sono degli assoluti (il diritto alla vita o il diritto di voto sono innegoziabili), i diritti sociali vanno contemperati con quelli di tutti i cittadini, tenendo conto non solo di quelli di una parte, cioè i percettori delle pensioni più alte. E questo la Corte costituzionale non lo ha fatto.


C'è poi un punto estremamente importante per la democrazia di un Paese, che è messo in discussione dalla sentenza N.70 della Consulta. A chi spetta bilanciare aspettative dei cittadini e risorse disponibili? Spetta ad un ristretto circolo di giudici non eletti dal popolo sovrano, o invece al Parlamento che tale sovranità la esercita perché democraticamente eletto (o per lo meno ratificato)? La questione diventa oggi centrale con una sentenza di così grande impatto sociale, economico e anche politico. E il fatto che a votare per questa sentenza sia stata compatta la componente togata, rispetto all'altra metà della corte, apre interrogativi pesanti sull'irrisolto rapporto magistratura-politica, e sul corto circuito che si può creare da un'invadenza di campo, come s'è visto anche nel caso della «riscrittura» da parte della Corte della legge elettorale invece di cassare semplicemente il Porcellum «incostituzionale» rimettendo in vigore automaticamente la legge precedente.


A questo punto diventa auspicabile e urgente che anche le regole di funzionamento della Corte siano al più presto riformate, riprendendo magari l'antico progetto di ammettere la dichiarazione di illegittimità di una legge solo con il voto dei due terzi dei giudici. O almeno introducendo l'obbligo di trasparenza e di pubblicità dei verbali di discussione, per capire le ragioni degli uni e degli altri, e responsabilizzare così i singoli giudici.

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