Italicum, scontro finale per le riforme

Italicum, scontro finale per le riforme

di Pierangelo Giovanetti

Martedì prossimo alla Camera dei deputati torna la riforma elettorale per il voto finale. Già approvato nel marzo dello scorso anno alla Camera, l'Italicum è stato poi modificato sulla spinta delle richieste di Forza Italia e della stessa minoranza del Pd, e il testo che si andrà a votare fra due giorni è lo stesso già votato con una larga maggioranza dall'intero Partito democratico e da Forza Italia nel gennaio scorso. Stupefacenti appaiono quindi le obiezioni che, oggi, gli stessi partiti o correnti di partito che tre mesi fa hanno votato una riforma pongono alla stessa riforma. Alcuni di questi addirittura evocando il «golpe» che, dall'inizio dell'anno, sarebbe il quinto o sesto in corso a detta di costoro, con un utilizzo allegro e irresponsabile del concetto di «colpo di stato», dagli effetti eversivi sul sentimento stesso di democrazia. Lo scontro sul testo, già votato in precedenza, appare inspiegabile a meno che non sia - come ormai è evidente - solo pretestuoso e strumentale, per perseguire altri obiettivi rispetto alla riforma elettorale, cioè l'abbattimento del governo e soprattutto l'affossamento del suo leader. Non tanto, per i dissidenti del Pd, in quanto premier ma in quanto segretario del Partito democratico, eletto a stragrande maggioranza dal voto delle primarie. In sostanza è l'ennesimo (a questo punto è sperabile l'ultimo) tentativo di chi ha perso il controllo del partito di abbattere il legittimo vincitore, non attraverso un nuovo voto popolare delle primarie o al limite un congresso, ma alla vecchia maniera delle imboscate e delle congiure di Palazzo.


Martedì alla Camera dei deputati non si voterà, quindi, solo una riforma elettorale, necessaria quanto urgente. Necessaria quanto urgente visto che il Paese è privo di legge elettorale espressa dalla sovranità popolare attraverso il Parlamento (quella precedente è stata dichiarata incostituzionale dalla Corte). Sarà l'estremo tentativo della minoranza del Pd di riesumare la vecchia idea di partito bocciata dagli elettori alle primarie, cancellando il nuovo impianto culturale fondato sul bipolarismo (anzi il bipartitismo), la vocazione maggioritaria e il ruolo del leader che non può e non deve essere ostaggio dei notabili di partito, ma risponde - come accade in ogni democrazia liberale occidentale - agli elettori di quanto fatto e di quanto non fatto. Si capisce allora perché il voto finale di una riforma, che è in discussione fin dall'inizio della legislatura e che ricalca il modello elaborato anche dai «saggi» del governo Letta, è stato caricato di enfasi e significati impropri e ingiustificati: è forse l'ultima occasione per puntare al «ribaltone», per affossare il cammino delle riforme, per far cadere l'esecutivo e magari riappropriarsi dei poteri di veto che, in un solo anno di governo, sono stati uno per uno smontati, con grande vantaggio dei risultati, come s'è visto dagli effetti immediati del Jobs Act fin dal primo mese.


Per le opposizioni il voto sull'Italicum è il tentativo disperato di contare qualcosa, di emergere dal nulla, e questo non sulla spinta di una proposta politica, di una riaggregazione volta a sfidare Matteo Renzi alle prossime elezioni, di un progetto alternativo al «renzismo», che tanto bene farebbe al funzionamento del Paese in un'alternanza al voto di schieramenti diversi. No, la contrapposizione è sullo sfascio, sull'abbattere ciò che si è costruito, sul disfare la tela come Penelope azzerando il lavoro fatto e riportando i concorrenti alla casella iniziale. E questo senza fermarsi nemmeno di fronte ad azioni profondamente antidemocratiche come l'abbandono dell'aula o della commissione, violando il patto con gli elettori che li hanno eletti per legiferare e costruire azione politica dentro le istituzioni, e non contro le istituzioni attraverso rappresaglie extraparlamentari.
Immorale alla stessa stregua è la richiesta di voto segreto su una materia che non riguarda temi etici, ma che concerne la legge elettorale che si vuole dare al Paese, dove il cittadino ha il dovere di sapere come votano i suoi rappresentanti, chi vota a favore e chi contro. Alla trasparenza e chiarezza di posizioni auspicata con sempre più forza dai cittadini, si risponde invocando l'imboscata segreta, il nascondersi la mano dietro la schiena, il pugnalare come fecero i 101 franchi tiratori che affossarono Prodi mantenendo le mani pulite.


Al di là di come andrà a finire martedì a Montecitorio in questa guerra contro Matteo Renzi e il procedere delle riforme, qual è l'alternativa all'approvazione dell'Italicum? L'alternativa è una sola: l'impotenza parlamentare e il discredito delle istituzioni politiche. Certo, la legge elettorale giunta al suo iter finale non è la migliore possibile. Molto meglio sarebbe stato, se le condizioni politiche lo avessero consentito, reintrodurre i collegi uninominali maggioritari che, in piccoli collegi territoriali, garantiscono uno stretto rapporto fra eletti ed elettori, la formazione di chiare maggioranze politiche, il rafforzamento di schieramenti alternativi. Ora, azzerare tutto per tornare alla paralisi che il Consultellum introdotto «per risulta» dalla Corte porterebbe in Parlamento, costringendo alle larghe intese a vita per mancanza di formazione di una maggioranza, è una follia, utile solo a chi ama la palude per pescare meglio nel torbido, e ricattare con più poteri di veto alzando il prezzo del proprio voto.


Quanto alle obiezioni sostenute da quanti si oppongono al testo finale della riforma, peraltro da loro già votato, emerge una debolezza di fondo. Innanzitutto il premio alla lista, e non alla coalizione di liste: dopo aver detto e ripetuto allo sfinimento che le unioni che contengono tutto e il contrario di tutto, da Mastella a Turigliatto, non sono in grado di decidere, e quindi di governare, ora che si afferma un modello che vede contrapporsi due o tre partiti in grado di contendersi la maggioranza e quindi vincere le elezioni, questo diventa contro la democrazia. Nel 2009 il referendum Guzzetta-Segni, che prevedeva proprio questo, aveva tra i suoi sostenitori autorevoli esponenti del Pd, da Rosy Bindi a Enrico Letta, e nessuno in quel caso si sognò di tacciare il modello di antidemocraticità. Semmai ciò che indebolisce la formazione di partiti forti è la pessima «clausola di esclusione», che ha abbassato al 3% il limite per i partiti piccoli per entrare a Montecitorio. Ma la clausola è stata voluta proprio dalla minoranza Pd, da Sel, da Alfano e dagli altri cespugli attualmente in Parlamento, preoccupati più per sé che per il bene del Paese. 


Stessa cosa per le preferenze. L'Italicum prevede metà degli eletti con le preferenze e metà attraverso capilista nominati: certamente non il meglio assoluto. Comunque molto meglio del sistema che ha eletto l'attuale Parlamento dove tutti (tranne i sette senatori del Trentino Alto Adige) sono stati nominati. E comunque, considerando battaglie e referendum contro le preferenze quale «male assoluto» e causa di corruzione, portate avanti anche dalla sinistra negli ultimi venticinque anni; e tenuto presente che si sono sempre ritenute virtuose regioni come Veneto e Lombardia che non facevano uso di preferenze (solo il 15%) a differenza di Calabria, Campania e Sicilia, dove quasi ogni scheda era siglata da preferenze in buona parte controllate, forse non si tratta di questione di vita o di morte. Vedremo martedì cosa succederà. Di certo un Paese che sta lentamente cominciando a rialzare la testa, dopo anni tra i più pesanti della sua storia recente, non merita il ritorno allo sfascio. Più che abbattere, ora occorre costruire.

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