Un Presidente di pacificazione

di Pierangelo Giovanetti

Giovedì prossimo 29 gennaio iniziano le votazioni per il nuovo Presidente della Repubblica.
Si tratta di un passaggio politico importante, delicato, anche rischioso, come ha dimostrato la paralisi istituzionale di quasi due anni fa, che costrinse a dover implorare Giorgio Napolitano ad accettare un secondo mandato per uscire dall'impasse. La figura del capo dello Stato è diventata centrale nel nostro sistema politico-istituzionale, il fondamento su cui si è retta la Seconda Repubblica, perno dell'intero funzionamento democratico del Paese e baluardo dell'unità nazionale, oltre che riferimento e garanzia nei confronti del resto d'Europa, di cui siamo parte e da cui non possiamo prescindere. Purtroppo il sistema di elezione è rimasto quello opaco e non trasparente della Prima Repubblica, quando il Quirinale aveva una funzione per lo più notarile, in quanto l'architrave del sistema politico poggiava sui partiti, di cui il Capo dello Stato registrava semplicemente le volontà e gli equilibri. Lo scrutinio segreto per chiamata nominale attraverso cui si vota il Presidente è infatti il terreno migliore per le peggiori nefandezze: trabocchetti, imboscate, vendette, messaggi mafiosi, ricatti e regolamenti di conti interni ai singoli partiti.
Il sistema meno indicato ad individuare una figura in grado di svolgere un ruolo così complesso e cruciale su cui si regge l'impalcatura e il funzionamento dell'intera Repubblica.


Per questo vanno definiti alcuni punti fermi, così da evitare che la riflessione e la decisione dei 1009 «grandi elettori» chiamati al voto sia indirizzata da altri scopi e altre ragioni che non siano l'individuazione della figura adatta a «quel» ruolo e a «quei» compiti, magari anche sull'onda di spinte emotive, risentimenti e suggestioni mediatiche. Innanzitutto l'elezione del Presidente della Repubblica per sua natura deve avvenire attraverso un accordo bypartisan, che raccolga il maggior numero di consensi possibili, legittimando quindi l'eletto come garante super partes anche al cambio di maggioranza politica. Il Capo dello Stato non può essere espressione di un partito soltanto, e tanto meno di un frazione di partito. Deve dare stabilità al sistema politico-istituzionale, e consentirne il normale funzionamento, compresa l'alternanza di governi. Questo è tanto più importante nell'Italia di oggi che è reduce da uno sciagurato ventennio paralizzato dalla delegittimazione reciproca, costruito sul no all'avversario invece che sul sì ad un progetto, dove gli schieramenti si sono formati sulla discriminante «berlusconismo-antiberlusconismo», a scapito di ogni ragionamento sul Paese e il suo futuro.


Una «guerra dei 20 anni» che va chiusa, definitivamente, sancendo con l'elezione del nuovo Capo dello Stato l'inizio di un corso, con regole nuove (la legge elettorale e la riforma del sistema bicamerale a cui si sta mettendo mano) e soprattutto un contesto politico-istituzionale nuovo, non più basato sulle contrapposizioni personali ma di programmi, non più su coalizioni pletoriche e rissose (e quindi inconcludenti) ma su leader e formazioni che rispondono direttamente agli elettori delle loro scelte (e delle non-scelte). Per questo è auspicabile che la scelta del Capo dello Stato avvenga attraverso una convergenza fra centrosinistra e centrodestra (il terzo polo, i grillini, purtroppo si è tirato fuori dai giochi e si è reso ininfluente, cioè inutile). Una scelta che non si fondi sui veti, come immancabilmente una sinistra cieca e suicida, capace solo di far male a se stessa e agli altri, ha prontamente cercato di fare (vedi l'accoppiata del «no» Civati-Vendola).


In secondo luogo, se l'elezione del successore di Napolitano deve segnare uno spartiacque, una ripartenza del Paese dopo oltre un ventennio di decadenza, riportando la fiducia nella politica e nella sua capacità d'azione, non può essere lasciata al gioco di guerriglie intestine e di logoranti trascinamenti, bruciando i candidati uno dopo l'altro, iniettando veleni e vendette. Il nuovo inquilino del Quirinale va scelto con celerità di tempi e qualità dei personaggi, dimostrando che la politica, il Parlamento, sanno costruire insieme, sanno decidere, sanno essere all'altezza del compito a cui sono chiamati, riscattandosi dalla delegittimante figuraccia di due anni fa che ha acuito ulteriormente il fossato con i cittadini. Non può essere che nella scelta del Presidente della Repubblica finisca il contingente, l'umore di giornata, il disappunto di un perdente alle primarie della Liguria che subito nel Pd diventa il pretesto per invocare regolamenti di conti nella corsa al Colle. Scegliere il Capo dello Stato non può essere terreno per scopi altri, per cercare una rivincita di quanti hanno perso la leadership e la segreteria del partito. Non è il girone di ritorno del campionato per decidere chi comanda all'interno del Pd. Questa è vecchia politica, è vecchio partito, ancora una volta frutto dell'incapacità di guardare in avanti per rimanere avvinghiati al passato, a tempi che non esistono più, rimirando solo il proprio ombelico.
Se anche questa volta, come due anni fa, il Partito democratico dimostrerà di non essere all'altezza del ruolo a cui gli elettori lo hanno chiamato, se ancora una volta non riuscirà ad essere la risposta al problema ma si confermerà essere parte del problema riducendo l'elezione del Capo dello Stato ad una scaramuccia di bottega, allora il Pd non solo avrà perso la faccia di fronte agli italiani, ma anche la capacità di svolgere un ruolo nella politica italiana e nel futuro di questo Paese.


Infine lo spessore politico della scelta. Al Quirinale non può andare un Giancarlo Magalli qualunque, il volto più simpatico di quirinalizie fai-da-te, il più cliccato da chissachì su questo o quel social network. Al vertice della Repubblica serve una personalità di grande capacità e intelligenza politica, non asservito ai partiti (e nemmeno ai singoli leader, Matteo Renzi compreso), di grande esperienza e sapienza dentro i meccanismi istituzionali, dotato di autorevolezza e alto profilo europeo e internazionale. Se vogliamo riconquistare una credibilità, anche agli occhi degli altri Paesi dell'Unione, se vogliamo che la scelta del nuovo Presidente indichi visivamente che il Paese ha chiuso l'infinita transizione dopo la fine dei partiti della Prima Repubblica e si è dato un assetto stabile su cui costruire ancora crescita, benessere e speranza per i propri giovani, allora si deve alzare lo sguardo, puntare in alto. Cercare una personalità in grado di fare bene quel mestiere che le viene affidato, sapendo «unire» e non dividere, per condurre avanti con forza il cammino delle riforme intrapreso dall'Italia, e che sta cominciando a dare i suoi primi effetti. È troppo importante la posta in gioco, per lasciarla alle divisioni interne dei partiti. Sul Quirinale questa volta si giocherà la capacità di riscatto della politica italiana. Non è cosa da poco.


p.giovanetti@ladige.it Twitter: @direttoreladige

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