Soglia e preferenze: limiti della bozza

Bene ha fatto il Direttore Giovanetti a sottolineare l'enorme importanza della svolta che si determinerebbe qualora (sottolineo: qualora) l'accelerazione imposta da Matteo Renzi conducesse davvero all'approvazione dei tre elementi (fine del bicameralismo «perfetto», revisione del titolo V della Costituzione, nuova legge elettorale) che compongono la progettata riforma istituzionale

di Mario Raffaelli

Bene ha fatto il Direttore Giovanetti a sottolineare l'enorme importanza della svolta che si determinerebbe qualora (sottolineo: qualora) l'accelerazione imposta da Matteo Renzi conducesse davvero all'approvazione dei tre elementi (fine del bicameralismo «perfetto», revisione del titolo V della Costituzione, nuova legge elettorale) che compongono la progettata riforma istituzionale. Da anni, infatti, sostengo che proprio la «transizione infinita», seguita all'implosione della Prima Repubblica, costituisce la causa principale della perdurante e degenerazione del nostro sistema politico.

 

Del resto, se in questi ultimi vent'anni, si sono alternati al governo personaggi tanto diversi come Berlusconi, Dini, Prodi, D'Alema, Amato, Monti e Letta, senza riuscire a produrre una percepibile discontinuità, vorrà pur dire che qualche difetto del sistema deve essere rimosso, per costruire le condizioni minime preliminari, indispensabili per una migliore governabilità. Ugualmente, non mi scandalizzo del fatto che l'accordo sia stato raggiunto con Berlusconi. Così come la pace si costruisce innanzitutto con il nemico, le regole comuni si concordano con l'avversario. Grave, invece, sarebbe emarginare da tale accordo quella parte di Forza Italia che si è recentemente separata da Berlusconi posto che, da anni, è stata giustamente invocata la nascita di un centro destra «normale» ed europeo, depurato dal conflitto d'interessi e dalle altre «caratteristiche» che sono connaturate alla figura di Berlusconi.

 

A stupire, semmai, è l'atteggiamento di quanti si scandalizzano oggi, dopo aver fatto con Berlusconi in altri tempi la Bicamerale o, al contrario, quelli che si scandalizzavano ieri per il cosiddetto «inciucio», quando si progettavano riforme con procedure formali e strumenti istituzionali, e oggi dimostrano un entusiasmo senza riserve per un accordo elaborato con il «caimano», fra poche persone e in privati conversari. Ciò che mi preoccupa, invece, è la dichiarazione di Renzi secondo la quale tale accordo deve essere accettato in toto, così com'è, perché altrimenti «cadrebbe tutto». Con tanti saluti alla centralità del Parlamento, nonché al divieto (stabilito in Costituzione) di ogni «vincolo di mandato» per il singolo parlamentare.
 
Chi conosce la mia storia sa che sono stato un antesignano delle riforme elettorali, dell'opportunità di rivedere in maniera anche profonda una Costituzione che ormai da molti anni non è più (se mai lo è stata) la «più bella del mondo», della necessità di rafforzare la velocità dei processi decisionali, ponendo così fine alla mistica dell'assemblearismo e della finta partecipazione. E in tanti anni d'impegno politico mi sono sempre scontrato con il tradizionale conservatorismo della sinistra su questi temi. Devo però dire che mi colpisce un po' l'atteggiamento alquanto sbrigativo del nuovo segretario del Pd, quando sostiene che la richiesta di operare qualche modifica alla sua proposta significherebbe opporsi «alla decisione assunta da tre milioni d'italiani alle primarie».
 
A parte il tono vagamente plebiscitario, si tratta, infatti, di un'affermazione alquanto curiosa. Io, per esempio, sono fra quei cittadini (1.800.000, per la precisione) che hanno sostenuto Matteo Renzi alle primarie. E, certamente, l'ho votato (e fatto votare) anche per la sua espressa volontà di portare avanti una battaglia sui tre pilastri che costituiscono la sua proposta odierna. Facendo questo, però, non intendevo certo approvare anche singoli dettagli, peraltro sconosciuti, come la soglia al 35% o l'impossibile reintroduzione delle preferenze. Come, allo stesso modo, non sapevo di sostenere che la legge elettorale debba precedere per forza la riforma del Senato.
 
Ho citato questi tre specifici elementi perché la loro rilevanza è tale da poter inficiare la validità di una legge elettorale che, altrimenti, potrebbe davvero costituire quella svolta che aspettiamo da tanti anni. Dovrebbe essere evidente a tutti, infatti, che nessuna legge elettorale può migliorare la governabilità se non si elimina anche il doppione costituito oggi dalla Camera e dal Senato (e se non si potenzia, aggiungo io, il ruolo del governo e del Presidente del Consiglio). Solo una certa contestualità dei due processi può quindi evitare la tentazione di usare la nuova legge elettorale come un grimaldello per anticipare delle elezioni che, in mancanza degli altri interventi, porterebbero il paese al disastro finale.
 
La soglia del 35%, inoltre, non è assolutamente convincente sia sotto il profilo della sua costituzionalità sia per quanto concerne la sostanza del processo democratico. La recente sentenza della Corte ha stabilito che la «dis-proporzionalità» di una legge elettorale deve essere «ragionevole». Ora, è ben vero che la «ragionevolezza» non è quantificabile in termini esatti ma è altrettanto vero che non può certo essere ritenuto ragionevole un premio del 18% per chi ottiene il consenso di un terzo dell'elettorato. Tenendo a mente che, in tempi di forte astensionismo elettorale, quel 35%, in termini reali, potrebbe rappresentare poco più del premio maggioritario che s'intende concedere. Si tratta di un punto fondamentale che dovrebbe essere rivisto (anche per evitare possibili bocciature della Corte), tanto più che l'esistenza di una soglia così bassa è ancora meno sostenibile e/o necessaria, dopo l'opportuno inserimento del secondo turno qualora nessuno raggiunga al primo turno la soglia indicata.
 
Resta, infine, la questione della possibilità di scelta per il singolo elettore. È evidente, infatti, che la definizione di collegi piccoli, con il conseguente accorciamento delle liste, non incide per nulla sull'effettiva esistenza di tale potere. Conoscere meglio la figura dei parlamentari proposti non concede certo la possibilità di scegliere se si è obbligati ad accettarli o respingerli in blocco, pochi o tanti che siano. Per questo, Renzi pensa di risolvere il problema impegnandosi a fare le primarie. Ma un problema sistemico fondamentale (che riguarda cioè il diritto di tutti i cittadini) non può essere risolto solo per i sostenitori di un partito e nemmeno in forza di personali (e ritirabili) concessioni da parte del leader del momento. Deve riguardare tutti gli elettori, in conseguenza di norme chiare e formalmente definite.
 
Ciò può essere fatto solo in due modi: o reintroducendo le preferenze (un uomo e una donna) o disciplinando per legge un sistema di primarie, uniforme e impegnativo per tutti (ciò che sarebbe necessario anche avendo collegi uninominali). 
 
La prima scelta sarebbe la più facile e, per di più, coerente con il referendum del 1991 e con quanto già accade in tutte le elezioni di carattere locale. La seconda è certamente più complessa, perché fa riemergere la mai affrontata questione riguardante la personalità giuridica dei partiti. Eppure, solo primarie veramente serie, giuridicamente regolate e valide per tutti potrebbero far rivivere i partiti e riavvicinare la gente alla politica. Sono uno strumento troppo importante, infatti, per essere lasciate al «fai da te», con il rischio di impedire percorsi chiari, portando la gente ad esprimere la propria scelta senza un reale confronto preventivo e magari durante le vacanze estive.
 
Sia riconosciuto a Matteo Renzi, quindi, il grande merito di aver finalmente aperto la strada al cambiamento, piegando le resistenze dei tanti conservatori che allignano nel suo partito. Spetta a tutti noi, però, cercare di aiutarlo a non farsi prendere la mano dall'entusiasmo e a non disperdere la grande occasione che ha costruito con le sue mani.
 
Mario Raffaelli
Già deputato e sottosegretario per più legislature
comments powered by Disqus