Il patrimonio dei rifugi alpini

Il grande musicista austriaco Gustav Mahler, abituale frequentatore delle montagne di Dobbiaco/ Toblach in Val Pusteria, annotava finemente: «La tradizione è salvaguardia del fuoco, non adorazione della cenere». Se facciamo tesoro di questa massima, la tradizione costruttiva del nostro patrimonio di rifugi potrà essere esaltata. Non già riproponendo, sic et simpliciter, gli stessi schemi costruttivi, bensì iniettando idee nuove nel solco della tradizione. Soltanto in questo modo l'innovazione potrà vivificare la tradizione

di Annibale Salsa

Che i Rifugi alpini costituiscano un prezioso patrimonio è un dato da tempo acquisito con consapevolezza ed orgoglio, sia da parte delle associazioni alpinistiche, sia dai vecchi e nuovi utenti di queste strutture. Possiamo anche scomodare le ormai obsolete etimologie latine, spesso dimenticate nell'attuale società post-umanistica e tecnocratica, ricordandoci che «il patrimonio è il dono dei padri» (Patrummunus). I padri dell'alpinismo ottocentesco hanno inaugurato, in tal senso, una prassi costruttiva sulla quale siamo qui ad interrogarci in un momento di trasformazioni profonde riguardo al loro futuro. Agli albori dell'alpinismo gli euforici primi frequentatori delle Alpi si appoggiavano alle strutture abitative presenti nei villaggi. Gli abitanti, ormai consci delle potenzialità in progress del neonato turismo alpino, incominciano ad edificare i primi alberghetti di montagna. 

 

O a praticare quello che oggi, con un neologismo ispirato alla eco-sostenibilità, chiamiamo «Albergo diffuso». Ma l'esigenza di ricoveri che garantissero agli alpinisti una maggiore prossimità alle vie di salita spingeva nella direzione di costruire vere e proprie strutture dedicate all'accoglienza di quei particolari touristes che l'alpinista francese LyonelTerray definiva «Conquerants de l'inutile». Tale definizione di «conquistatori dell'inutile» rende bene l'idea che i nuovi ricoveri d'alta quota non erano destinati ad accogliere i lavoratori della montagna (minatori o pastori), come invece accadeva per le prime «capanne». Si pensi alla Capanna Vincent, costruita nel 1785 per essere di supporto ai lavoratori delle miniere aurifere del Monte Rosa, o al ricovero del Colle Indren realizzato nel 1851. Nell'anno 1907, non lontano da qui, nei pressi del Passo dei Salati sorgerà l'Istituto «Angelo Mosso»,destinato alla ricerca scientifica nel campo della fisiologia umana d'alta quota.

 

Questa realizzazione sarà la prima ad avere il supporto ed il sostegno finanziario di molti Paesi europei e, addirittura, degli Stati Uniti d'America. Nell'Istituto, ormai di proprietà dell'Università di Torino, verrà avviata la preparazione scientifica della spedizione italiana al K2 del 1954. La sua operatività nella ricerca sarà strettamente collegata alla Capanna Osservatorio Regina Margherita del Club alpino italiano (Cai). Taleavveniristica struttura è stata collocata sulla Punta Gnifetti (SignalKuppe) al Monte Rosa,a quota 4554 metri di altitudine, sul confine italo-svizzero. L'inaugurazione è stata fatta il 14 Luglio 1889 allo scopo di: «consentire ad alpinisti e scienziati maggior agio ai loro intenti in un ricovero elevatissimo», come si legge nella relativa delibera del Consiglio direttivo. Con tale delibera, il Cai diventerà il gestore del rifugio più alto delle Alpi e d'Europa. Ma, già nel lontano 1866, l'Associazione alpinistica italiana inaugurerà il suo primo ricovero per alpinisti in località Alpetto a 2268 metri (Comune di Oncino, Provincia di Cuneo) ai piedi del Monviso, montagna simbolo del Sodalizio. In Trentino la Sat (Società degli Alpinisti Tridentini), nata a Madonna di Campiglio in Val Rendena nel 1872 e con un forte radicamento nelle Giudicarie - la terra elettiva della cooperazione trentina - costruirà il suo primo rifugio nel 1881 sotto Cima Tosa (Dolomiti di Brenta). Nello stesso anno 1881 il Club alpino francese inaugura il Rifugio dei GrandsMulets al Monte Bianco, ai piedi della via percorsa dai primi salitori Balmat e Paccard. In tutti gli otto Paesi dell'arco alpino dalla Francia alla Slovenia - passando per la Svizzera, l'Austria, la Germania - si moltiplicano le iniziative edificatorie allo scopo di fornire agli alpinisti punti d'appoggio sempre più numerosi. Anche al di fuori dell'associazionismo, nelle località a più forte richiamo turistico, si affiancano nuovi progetti di rifugio per iniziativa di albergatori, comuni, parchi naturali ed altri. Esempio paradigmatico, nelle Alpi centro-occidentali italiane (Val Sesia), saranno i fratelli Gugliermina, vecchi albergatori dell'alto novarese e fra i primi imprenditori turistici in Italia. Alla quota di oltre 2800 metri sul Col d'Olen, sotto il Monte Rosa, essi costruiranno un albergo-rifugio per una clientela particolarmente raffinata. Dapprima, i nuovi rifugi recupereranno e riadatteranno edifici pre-esistenti dismessi dal loro principale uso pastorale.

 

Tuttavia, la tendenza che emergerà sarà quella di costruire manufatti realizzati ex-novo con l'impiego di materiali del luogo (pietra, legno, pietra-legno). Il rifugio acquisirà sempre più una fisionomia omogenea all'ambiente ed al paesaggio circostante. Anche la componente estetica, unita ad una rappresentazione romantica dell'epoca impadronitasi diffusamente dell'immaginario degli amanti della montagna, farà pensare al rifugio come ad un tutt'uno con la montagna stessa. Si viene così a creare e/o inventare una tradizione che contribuirà ad esaltare i valori di una presunta «tipicità» paesistica dimenticandosi che il rifugio è, comunque, un corpo estraneo rispetto al tessuto del paesaggio culturale. Si tratta, infatti, di un elemento precario che non può inserirsi totalmente nel contesto socio-culturale di ciascuna valle o regione storica. Un'impostazione di tal genere finisce per rappresentare un «tipo ideale» di rifugio pensato alla stregua di una forma architettonica immutabile nel tempo, fissata e cristallizzata secondo stilemi del tutto de-storificati.

 

Se tradizione significa «innovazione riuscita», si comprende allora che spesso rischiamo di associare la tradizione al passatismo, alla immutabilità, ad una discutibile coazione a ripetere. Il grande musicista austriaco Gustav Mahler, abituale frequentatore delle montagne di Dobbiaco/ Toblach in Val Pusteria, annotava finemente: «La tradizione è salvaguardia del fuoco, non adorazione della cenere». Se facciamo tesoro di questa massima, la tradizione costruttiva del nostro patrimonio di rifugi potrà essere esaltata. Non già riproponendo, sic et simpliciter, gli stessi schemi costruttivi, bensì iniettando idee nuove nel solco della tradizione. Soltanto in questo modo l'innovazione potrà vivificare la tradizione. L'attuale dibattito, anche acceso, fra conservatori e innovatori in materia di rifugi ricorda un po' quello fra «apocalittici» ed «integrati» che aveva acceso gli animi degli intellettuali negli anni sessanta. Tradizione e innovazione non sono termini opposti o contrapposti. Essi possono aiutare, se correttamente declinati, ad attivare circoli virtuosi in grado di aprire la montagna al futuro e di ricapitalizzare un patrimonio di alto valore materiale e immateriale, reale e simbolico.


Annibale Salsa
Presidente Comitato Scientifico
Accademia della Montagna del Trentino
L'intervento qui pubblicato ha introdotto i lavori del convegno «Rifugi in divenire»

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