Il pentimento verso gli indios

Il pentimento verso gli indios

di Luigi Sandri

Un pubblico e forte “mea culpa” per le atrocità compiute cinque secoli fa dai “conquistadores” spagnoli - i soldati con le armi, i missionari cattolici benedicendole - contro i popoli originari del Messico: è la clamorosa e controversa richiesta che l’attuale presidente di quel paese, Andrés Manuel López Obrador, ha rivolto pochi giorni fa con una lettera a Felipe VI, re di Spagna, e a papa Francesco.
Mentre, per ora, il Vaticano non ha commentato, a Madrid il governo di Pedro Sánchez ha respinto «con fermezza» la richiesta: «L’arrivo degli spagnoli, cinquecento anni fa, nelle attuali terre messicane, non può essere giudicato alla luce della consapevolezza di oggi». Secondo il presidente, il 2021 dovrebbe essere l’anno della storica riconciliazione. Infatti, in quell’anno ricorrono i settecento anni dalla fondazione - da parte degli Aztechi - di Tenochtitlan, attuale Città del Messico.

Ma anche i cinquecento anni della sua caduta nelle mani degli spagnoli; i duecento anni dell’indipendenza del Messico dalla Spagna.
Fu Hernán Cortés a guidare nel 1519 la spedizione spagnola nelle terre “scoperte”, venticinque anni prima, da Cristoforo Colombo, e da altri dopo di lui in Messico. Il comandante, due anni dopo, riuscì a prendere la capitale, fare prigioniero il re azteco Cuahtémoc, e iniziare le colonizzazione dell’intero paese. Che la conquista sia stata caratterizzata da tremende violenze lo affermarono, già a metà del Cinquecento, uomini di Chiesa spagnoli: tra essi, Bartolomé de Las Casas.

Arrivato nel 1502 nelle Antille, e poi in Messico, questi voleva arricchirsi nel “nuovo mondo”, sfruttando gli autoctoni ma, constatando le violenze dei suoi compatrioti contro di loro, cambiò vita. Diventato frate domenicano e, poi, vescovo del Chiapas, convinse l’impertore Carlo V ad emanare leggi per proteggere gli “indiani”. Nel 1552 pubblicò la sua Brevísima relación de la destrucción de las Indias, nella quale descrive le torture degli spagnoli agli “indios” che non volevano convertirsi.
Nel 2007 Benedetto XVI in Brasile affermò: «L’annuncio del Vangelo (nell’America latina) non comportò, in nessun momento, un’alienazione delle culture precolombiane, né fu un’imposizione di una cultura straniera». Parole che suscitarono vivissime proteste di molti popoli “indios”.

In Messico le antiche popolazioni hanno subìto repressione - nei decenni recenti - anche dai governi locali. Perciò la proposta di López Obrador ha suscitato pure nel suo paese controverse reazioni.
Dal punto di vista etico, sul lato politico, e su quello ecclesiale, una domanda cruciale si impone: è possibile pentirsi, secoli dopo, di accadimenti di cui non si ha nessuna responsabilità?
Willy Brandt l’allora cancelliere tedesco, che pur si era battuto contro il nazismo, nel dicembre 1970 quando a Varsavia fu là dove c’era il ghetto ebraico, nel 1943 distrutto a cannonate dalle truppe tedesche, con gesto imprevisto dal protocollo si inginocchiò, in silenzio. Molti, in patria, poi lo criticarono: ma egli agì da grande leader.

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