Dai soprusi ci si difende con la cultura

Dai soprusi ci si difende con la cultura

di Sandra Tafner

Trento non è diventata «Città della cultura 2018» però ha tenuto fede alla campagna promossa per adottare un testo. «Un libro, una città», che sia non un gruppo ma la città intera a eleggere un libro, da ritenersi poi  il romanzo del capoluogo fra i diciassette selezionati da una giuria. Libro che in vari modi e in vari luoghi sarà letto collettivamente. L’iniziativa già esiste in altri Paesi ed è sicuramente positiva soprattutto in tempi che rischiano di essere più votati al digitale che alla carta stampata. È un’offerta di cultura e ancor prima uno strumento di educazione.

Il rischio di ripetere il concetto è voluto e non può che far bene: la cultura è il primo gradino (l’esterofilia lo definirebbe step) per appropriarsi dei mezzi necessari a difendersi dai soprusi che in tempi di crisi diventano sempre più frequenti e rendono sempre più deboli le persone socialmente deboli.

All’inizio dell’anno a Torino è nata un’altra iniziativa che si è conclusa la settimana scorsa, rivolta a chi viaggia in metropolitana. E anche questa coinvolge la collettività. Si sa che spesso, per alleviare la noia dell’attesa, gli altoparlanti diffondono messaggi pubblicitari e musica - spesso noiosa, inutile e invadente - che non sempre è un piacevole sottofondo ai pensieri di ciascuno.

L’esperimento di questi mesi ha previsto allora di puntare sulla poesia, un budget di settanta composizioni che per cinque volte al giorno veniva diffuso in tutte le stazioni, da Ugo Foscolo a Jacques Prevert, da Garcia Lorca a Pablo Neruda passando per i grandi classici molte volte sconosciuti o dimenticati insieme ai vecchi libri di scuola. Si trattava per qualcuno di novità assolute, per altri di una rinfrescata dei ricordi di gioventù. E  poteva diventare lo spunto per riandare ai tempi in cui gli insegnanti costringevano a studiare a memoria interi pacchetti di versi, allora una gran seccatura, oggi un apprezzabile rimpianto.
Sono cose che possono far sorridere i giovani digitali.

Li chiamano Millennials e non c’è un giorno in cui non si legga o non si senta questo termine ormai abusato, uno dei tanti per la verità che ormai invadono il nostro vocabolario e che servono a riassumere un concetto. Una parola al posto di una frase, forse per risparmiare tempo o fatica. Con Millennials si intende quella generazione tra il 1980 e il 2000, la prima nata con Internet, la prima a saper smanettare sui tasti di un computer, la prima a staccarsi sempre più tardi da mamma e papà. E siccome i tempi corrono sempre più in fretta, eccoci arrivati a quei giovani (la generazione Z, intesa come ultima lettera dell’alfabeto) perennemente abbarbicati a tablet e smartphone, costantemente connessi e sempre più spesso fruitori di un linguaggio strano, criptato, quasi un gergo per non farsi capire al di fuori del gruppo. Come il taròn degli arrotini emigrati secoli fa dalla Val Rendena.

Il discorso è ovviamente generale e sono per fortuna ancora molti i giovani che apprezzano ed esprimono una cultura ampia, non limitata all’immersione esclusiva nel digitale. Addirittura si registrano eccessi nel senso opposto (fortunatamente sporadici), se è vera la notizia che viene dagli Stati Uniti dove una bambina di quattro anni, della Georgia, ha varcato le porte della biblioteca del Congresso accolta come bibliotecario del giorno. Il suo record è quello di aver letto oltre mille libri seguendo il programma «Mille libri prima della scuola materna» nato per incoraggiare le famiglie a trascorrere più tempo insieme. A parte la quantità che ha dell’inverosimile, anche la qualità non dev’essere stata un granchè, forse limitata a sfogliare i testi senza capirne nemmeno il senso.

Le esagerazioni producono fenomeni destinati a restare casi isolati, a fare vittime di metodi educativi che dimenticano le esigenze di un’età decisamente più propensa ai giochi con gli amici, alle corse all’aria aperta, alle visite allo zoo. Svaghi da prima infanzia, obbligatori per rispetto verso i bambini che non dovrebbero essere preda delle ambizioni dei grandi. Come diceva Rousseau, occorre osservare i bambini nella loro specificità, dal momento che l’infanzia non è semplicemente un’età preparatoria al mondo degli adulti. Non è di campioni che la società ha bisogno. E non è un terreno fertile quello che produce eccessi, di qualsiasi genere essi siano. La cultura per fortuna è un’altra cosa.

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