E se gli italiani usassero l'italiano?

E se gli italiani usassero l'italiano?

di Sandra Tafner

Non è detto che quello dei fumetti sia un mondo esclusivamente infantile. Qualche volta «Topolino» lo leggono - e nemmeno di nascosto - anche gli adulti. E pure «Linus», con i suoi personaggi teneri come Charlie Brown, o scorbutici come la pestifera Lucy. E proprio lei un giorno si rivolge così al suo piccolo amico: non sopporto più di vedere la tua faccia. Perché? chiede lui, che cos'ha che non va la mia faccia? Che ne so, è una faccia facciosa.

Una faccia da bamboccio, tonda, abbastanza anonima. L'aggettivo rende l'idea. Così come la rende l'aggettivo più in voga del momento, non in America, patria della striscia disegnata da Schulz, ma in Italia patria dell'Accademia della Crusca, dove un bambino della terza elementare per descrivere un fiore lo definisce petaloso, cioè pieno di petali. 

Da quel momento diventa una gara a chi usa di più quell'aggettivo, a cominciare dal Presidente del Consiglio. Ma come mai questo interesse sfrenato, se è vero che nemmeno di novità si tratta essendo già stata pronunciata la fantasiosa parola verso la fine del 1600 da un eminente botanico inglese? Eppure l'Accademia, interpellata, ammette il fascino del termine che, dice, potrebbe anche entrare nel vocabolario una volta diventata di uso comune. 

Allora pronti a usarla, forse perché piace e nessuno l'aveva mai sentita, forse perché i bambini fanno tenerezza. A qualcuno, non a tutti purtroppo stando a notizie sempre più terrificanti nei loro riguardi. Si spera che il piccolo, con tutto il chiasso che gli è stato fatto intorno, non si monti la testa ritenendosi un personaggio, già esempi non mancano in certe trasmissioni dove bambini intervistati si definiscono cantanti solo perché sanno cantare una canzone da grandi, senza nemmeno capirne il significato. 

Non è mai facile avere equilibrio e proprio per questo ci si potrebbe aspettare che ne siano forniti soprattutto gli adulti, visto che equilibrio significa assennatezza, moderazione, senso della misura, doti che la vita dovrebbe farti acquisire un po' alla volta nel corso degli anni. Ed è molto probabile che la maestra di Matteo abbia agito con equilibrio cercando, giustamente, di dare una gratificazione al suo alunno. 

La Crusca nell'occasione ha rimandato ai mittenti l'accusa frequente di essere composta da parrucconi troppo legati al passato. Forte dell'esperienza di oltre quattro secoli accumulati sulle spalle, la più antica Accademia linguistica del mondo non ha chiuso le porte al nuovo, consapevole che la lingua si evolve pur nel rigore delle regole che ne costituiscono la struttura di base. E invece proprio le regole pare che incontrino sempre meno il favore della gente, vuoi per ignoranza, vuoi per capriccio o comodità o moda o tanto altro.

Del resto anche l'Accademia più intransigente sembra non riesca a frenare il diffondersi di storpiature lessicali, grammaticali, linguistiche, filologiche. Quelle nascono e si diffondono spontaneamente. Apostrofi scomparsi, accenti sconosciuti, raddoppiamenti persi, tempi e modi verbali alterati. Bando alla fatica, esiste semmai il correttore automatico dell'ortografia. Un po' alla volta ci troveremo così a scrivere una lingua storpiata, sostituita da abbreviazioni e ideogrammi, farcita di emoticon, piena di parole inventate da giovani che la usano per sentirsi gruppo, come succedeva con i moleta della Rendena che giravano il mondo inventando il «taron», tanto per non farsi capire dagli altri.

Succede che in questo contesto qualcuno dia vita a esperienze tra il serio e il faceto, come stanno facendo alcuni studenti universitari riuniti nell'«Istituto di Provvidenza Grammaticale». La battaglia si combatte su Facebook, dove vengono riscritti gli strafalcioni di artisti, politici e gente comune. Pare che nessuno sfugga alla censura. 

Contestualmente si fa strada la sudditanza ad altra lingua, quasi esclusivamente l'inglese, adottata anche da chi non ne conosce né significato né pronuncia. Per stare sull'attualità, basti ricordare l'ormai stranota stepchild adoption. I nostri nonni ballavano l'«one step», pronunciato come si legge. Che volesse dire «un passo» e si pronunciasse «uan step» quasi nessuno lo sapeva. Adesso invece tutti pronunciano correttamente «stepchild adoption», ma non tutti sanno che il primo «step» era un sostantivo e il secondo un prefisso con significato completamente diverso. E se gli italiani usassero l'italiano? E se gli italiani studiassero l'inglese?

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