«Questo gioco si chiama alba»

«Questo gioco si chiama alba»

di Federico Uez

«Che gioco è?»

«Si chiama ‘alba’», mi risponde in creolo J.

Un tappo di bottiglia in plastica e un filo di nylon entrambi trovati in terra, una forbice per farci due buchi e assemblarlo, poi via … lo scopo è tirare la cordicella dalle due estremità, per far girare il suddetto tappo il più veloce possibile … facile no?

Beh, non per me, 23enne italiano, che non ha mai fatto un gioco simile a casa sua. Immagino i miei genitori, ma anche solo qualche ragazzo più grande, abbia già sperimentato una cosa simile durante la sua infanzia. Io no.

Così, ho chiesto a J e S, due ragazzini di circa 10 anni, di aiutarmi a costruirne uno per me. Nel cortile di Kay Chal, mentre altri bambini correvano o finivano i compiti per il giorno dopo, abbiamo cercato in terra il necessario, poi ci siamo seduti sul retro di un pick up parcheggiato e dismesso, iniziando a lavorare per creare un «alba» degno di questo nome.

Nel mentre, a Port au Prince soffia il vento, forte, come mi dicono essere tipico a marzo. Sui tetti delle case della citè e per le strade i bambini corrono per far volare i loro ‘Kap’, aquiloni, costruiti con sacchetti di plastica e, se fatti bene, dalla struttura creata utilizzando foglie di palma.

Il mio secondo tentativo di costruire il fantomatico gioco intanto fallisce, così i bambini prendono in mano la situazione e mi salvano, creandone uno apposta per me: «Questo è per te, Fede».

Ma, ahimè, una volta costruito un gioco, bisogna sapersi giocare, è risaputo. Questo è stato un altro problema. Nonostante gli innumerevoli tentativi, non ce l’ho fatta: sarò io il problema? Forse. Sarà che non ho mai giocato a questo gioco così banale, semplice ma divertente, ammetto.

Gli aquiloni continuano a volare. Alle volte se ne vedono alcuni davvero alti nel cielo … e i bambini corrono tutti assieme, tenendo ben stretto il filo del loro Kap, evitando le moto e qualche automobile, sulle strade sterrate.

«Fede continuiamo domani con l’alba. Nel mentre, te lo tengo io», mi dice J, prima di salutarmi e tornare a casa.

Tanti altri ragazzini sono passati a guardare come me la cavavo a giocare e tutti sembravano terribilmente bravi; che imbarazzo, pensavo.
Ad Haiti tutti sanno giocare con un «alba». Non so in Italia, ma io di certo non ne sono in grado, ma è stato davvero bello provare a imparare da qualche ragazzino: con poco, con inventiva e semplicità, divertirsi assieme, con un filo, un tappo di plastica e tanti sorrisi.

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